Non è una puntata della celebre serie “Gomorra”, niente attori dallo sguardo truce o frasi ad effetto semi sussurrate in napoletano stretto. Quella di Noemi è una tristissima puntata della realtà. È accaduta davvero, la settimana scorsa, quando nel corso di una sparatoria ai danni del pregiudicato Salvatore Nurcaro, un proiettile vagante ha raggiunto lei, una bambina di 4 anni “a spasso” con la nonna. Noemi è ancora in ospedale, dove stamattina si è risvegliata nell’emozione generale di medici e familiari, compreso il papà, che aveva annunciato che, se si fosse ripresa, avrebbe voluto portarla lontano da Napoli, appena dimessa, “per proteggerla”. Uno scioccante episodio di cronaca che ha segnato il cuore dei napoletani onesti portandoli ad urlare stanchi la necessità di “disarmare Napoli”. Lo hanno urlato sia allo Stadio, durante la prevista partita di campionato, che nel corso di una manifestazione svoltasi, lo scorso 5 maggio, in piazza Nazionale, teatro, solo due giorni prima, dell’assurda sparatoria tra la folla.

Proprio nel corso di questo sit-in per la legalità è arrivato il colpo di scena: un inatteso gesto ha offerto una chiave di lettura meno triste all’intera vicenda, concedendo, quanto meno, delle flebili speranze per il futuro. Tra i manifestanti c’era Antonio, un ragazzo di 23 anni, faccia pulita ed occhi un po’ lucidi, un qualunque ragazzo della Napoli dilaniata dalla camorra, se non fosse per il suo cognome, per il suo albero genealogico. Antonio di cognome fa Piccirillo ed è figlio di un camorrista, attualmente in carcere a rispondere di accuse quali associazione mafiosa ed estorsione.  Antonio ha preso in mano un megafono e, armato di tanto coraggio, non ha avuto esitazioni a gridare che “la camorra fa schifo”, prendendo le distanze da tutto ciò che ha sempre visto e respirato.

Aveva un tono di voce deciso ma incapace di celare l’emozione mentre “confidava” al mondo l’insofferenza che lo attanaglia nel sentirsi “figlio di camorrista”. «Sono veramente stanco – queste le sue parole – di sentirmi “figlio di”, io sono Antonio Piccirillo e voglio una vita sana per i miei figli». «I nostri genitori – ha continuato Antonio – ci hanno creato dei disagi esistenziali enormi. I figli dei camorristi non vivono bene e i camorristi stessi fanno una vita di merda, da cani, quella forse che meritano». Parole dure ed importantissime, soprattutto perché in netta contrapposizione con la figura che spesso ci viene proposta, quella del mafioso felice e soddisfatto, pieno di soldi, di donne e di ogni genere di svago, una figura falsa che rischia di affascinare i giovani e di indirizzarli verso percorsi distorti.

Antonio, pur non celando il proprio amore per il padre né il fatto di averlo “mitizzato” per molti anni, non gli fa sconti e, con un filo di rabbia, ha ammesso che gli errori commessi per anni dal suo papà/boss hanno irrimediabilmente segnato per sempre la vita a lui ed al fratello Saverio e che proprio questa consapevolezza ha innescato la sua voglia di rivalsa, la sua necessità di dissociarsi da certe azioni e di cercare un futuro migliore per sé e per i propri figli, un futuro con veri valori. Durante il proprio intervento e le successive interviste che ha rilasciato ha inoltre invitato tutti i giovani che vivono situazioni familiari analoghe alla sua a riscattarsi. «Tutti i figli di camorristi – ha detto – non nascondetevi dietro il dito. I nostri padri non servono a niente. Volergli bene è un fatto di natura, la natura ce lo impone; ma è importante la stima per un genitore. Un genitore che fa male agli altri non può essere reputato un buon genitore”.

Le sue parole portano alla mente quelle di un altro ragazzo coraggioso che lo ha preceduto, ormai tanti anni fa: si chiamava Peppino e gridava che “la mafia è una montagna di merda” nella Cinisi degli anni ‘70. Peppino Impastato, figlio di mafioso e cresciuto in una casa distante appena “100 passi” dalla dimora del boss Gaetano Badalamenti, si era ribellato alla logica mafiosa, voleva “fottersene” di suo padre, del suo paese, di quella mentalità che pretendevano di inculcargli, ma lo voleva fare in un contesto sociale un po‘ diverso da quello di oggi, per molti versi ancora immaturo ed impreparato ad apprezzare e proteggere una persona coraggiosa come lui. Negli anni ci sono stati altri esempi di “pecore nere”, di familiari di mafiosi che hanno preso le distanze dal loro mondo in nome di un innato senso di giustizia, figure per certi versi esili e per altri imponenti come Rita Atria (la picciridda, come la chiamava Paolo Borsellino) o Lea Garofalo, ma per tutti loro la scelta coraggiosa ha sempre avuto un prezzo carissimo, la propria vita.

Un prezzo che hanno pagato perché l’Italia non è mai stata capace di difendere adeguatamente i propri figli migliori, un prezzo che, certamente, Antonio Piccirillo ha valutato prima di impugnare il megafono e di sfidare le cosche, un prezzo che però è inaccettabile pensare che possa pagare. Adesso Antonio è sotto i riflettori, ma appena le luci della ribalta saranno distratte, si sposteranno un po’, non dovrà ritrovarsi solo. È necessario che gli sia fornita adeguata protezione e la possibilità di avere davvero quella vita migliore e libera dal marchio “mafioso” contro cui sta giustamente lottando.

Anna Serrapelle-ilmegafono.org