Dimenticatevi della coppola, della lupara. Dimenticatevi anche di quell’immagine del mafioso che il cinema, insieme ai documentari e alle serie tv, ha dipinto nel corso degli ultimi decenni. Se è vero che la mafia controlla ancora il territorio come un tempo (e per certi aspetti anche in maniera più opprimente), oggi il “mafioso”, nel modo in cui pensavamo di conoscerlo non esiste quasi più. Nell’era dei social, della visibilità, ma soprattutto della rappresentazione estrema di se stessi all’interno di internet, la mafia non si è certo tirata indietro, decidendo al contrario di adattarsi e adeguarsi come un qualsiasi altro core business. Secondo diverse indagini svolte negli ultimi mesi, pare che Tik Tok sia diventato il social preferito dai mafiosi. E non solo. Sì, perché se è vero che sono spesso esponenti appartenenti ai diversi clan a usare queste piattaforme, lo stesso fa anche chi non lo è in maniera diretta, ma vede nell’esaltazione di certi “valori” un qualcosa da imitare e far proprio.

Negli ultimi tempi, infatti, sempre più mafiosi hanno fatto uso dei social network (e di quello cinese in primis) per mostrare il lusso in cui vivono, con l’unico scopo di attirare giovani e, potenzialmente, nuove leve. Macchine fiammanti, donne, pistole, oggetti costosissimi: tutto ciò viene dato in pasto a un algoritmo che non è in grado di decifrarne la pericolosità e che permette di sfoggiare uno stile di vita che tenta e attira le menti più fragili (soprattutto quelle più giovani), che si lasciano ingolosire da uno standard di vita oltre ogni immaginazione. Poco importa se quello stesso stile di vita sia frutto del sangue (vero o simbolico) che qualcuno ha dovuto versare. Poco importa se tutto ciò è possibile “grazie” alla disperazione di chi fa sacrifici, di chi cerca di vivere una vita onesta, ma subisce la presenza inquinante di questa gente con cui purtroppo condivide il territorio.

L’utente medio di TikTok e di tutti gli altri social questo non lo sa, né lo vuole sapere. E si prefigge come obiettivo quello di vivere una vita al di sopra delle proprie possibilità. Ecco perché l’uso improprio di certi software può danneggiare gravemente il tessuto sociale dell’Italia che verrà. Ed è per questo che lo stesso Nicola Gratteri, in un’intervista La7 durante il programma “In altre parole”, condotto da Massimo Gramellini, ha voluto lanciare l’allarme: “L’uso improprio dei social media da parte delle organizzazioni criminali – ha affermato il procuratore – solleva questioni importanti sull’influenza di tali piattaforme sui giovani e sulla loro percezione della ricchezza e del successo”. Inoltre, “la mancanza di organizzazione rende difficile contrastare queste entità compatte e coese”. Dello stesso avviso è Marcello Ravveduto, autore e docente di Digital Public History all’Università di Salerno, secondo il quale oggi ci troviamo in un periodo del tutto nuovo che lui definisce “post-mafia”.

“La mafia del ‘900, delle stragi, eversiva, come struttura di potere che interloquisce con la politica è diventata nella dimensione pubblica una mafia brandizzata, tutta economica”, ha affermato. “Si costruisce appunto una ‘post-verità’, ovvero una verità ideologica in “un mondo con un’etica, anche se mafiosa”. “E questo – secondo Ravveduto – è dovuto anche a un ribaltamento nel racconto: se prima a parlare del fenomeno erano principalmente giornalisti, registi e scrittori, adesso, grazie ai social, la narrazione viene costruita dal basso, come autorappresentazione, da chi quel mondo lo vive in prima persona”. La cosa che preoccupa, inoltre, è come queste figure mafiose abbiano preferito la visibilità all’omertà: a dimostrazione, quindi, di come si sentano “al di sopra della legge”, perché “hanno compreso che essere presenti e controllare il territorio virtuale è fondamentale come controllare il territorio reale”.

Tutto ciò, ovviamente, porta a un’emulazione sfrenata non solo da chi mafioso non è, ma anche e persino da parte di altri clan stessi. Se un clan posta un contenuto su un social, un altro non aspetterà troppo prima di reagire e, perché no, addirittura provocare. In poche parole, la mafia è riuscita a traslare perfettamente aspetti di vita reale nell’universo digitale, con il vantaggio che, questa volta, si tratta di un universo difficile da prevenire e contrastare. Una difficoltà, questa, dovuta principalmente al fatto che le piattaforme non sono in grado di bloccare contenuti non esplicitamente violenti: se un video immortala un mafioso intento a mostrare mazzette o macchine di lusso, come può il social capire che si tratta di un contenuto pericoloso?

Ecco perché è importante avere un’organizzazione di contrasto aggiornata e preparata anche su fronti del genere. Ad esempio, partendo dal profilo social di un arrestato, è possibile risalire a informazioni importantissime che potrebbero dare il via a inchieste dal peso enorme. Bisogna quindi “ribaltare l’imbuto”, come tiene a precisare lo stesso Ravveduto, “partendo cioè da un’osservazione sul territorio” e studiando come queste reti di mafiosi si comportano sulle piattaforme. La lotta alla criminalità organizzata, oggi più che mai, si sposta inevitabilmente su fronti che solo fino a qualche anno fa sembravano impensabili. Ciò rende il tutto molto più difficile e complesso, ma si tratta di un problema che bisogna a tutti i costi risolvere e superare. Prima che sia troppo tardi. 

Giovanni Dato -ilmegafono.org