Sono passati trentadue anni dall’omicidio Mormile, eppure la verità resta ancora da scoprire. L’11 aprile 1990, a Carpiano (MI), Umberto Mormile, educatore carcerario di 34 anni, venne colpito da sei colpi di pistola mentre si trovava all’interno della propria auto. Un omicidio efferato, terribile e per cui, almeno in un primo momento, sembrò impossibile trovare una spiegazione. Soltanto nel corso degli anni, gli inquirenti sono riusciti a comporre pian piano i pezzi di un puzzle ancora incompleto, ma che adesso sembra comporsi in modo più chiaro, svelando uno scenario che fa rabbrividire.

Gli ultimi sviluppi delle indagini, infatti, rivelano che dietro l’assassinio di Mormile ci sarebbero diverse mani e teste: innanzitutto la criminalità organizzata (nello specifico la ‘ndrangheta), che ha ordinato l’omicidio. Mormile, infatti, era uno dei migliori operatori nel suo settore e capì sin da subito quanto la cultura e la formazione potessero aiutare a migliorare il benessere e il futuro dei carcerati. Il suo lavoro, inoltre, lo portava spesso a contatto con esponenti criminali e sembra che proprio in uno di questi contatti gli venne chiesto di scrivere una relazione favorevole nei confronti del boss ergastolano Domenico Papalia, in cambio di 30 milioni di lire.

Mormile rifiutò la proposta, ma pare che la sua morte non sia legata a questo rifiuto. Secondo gli inquirenti, infatti, Mormile venne fatto fuori per aver scoperto che pezzi deviati dello Stato e dei servizi segreti erano soliti entrare in carcere violando qualsiasi protocollo e, senza alcuna autorizzazione giudiziaria, si rivolgevano direttamente ai boss mafiosi al 41bis. È probabile, quindi, che Mormile si sia trovato a contatto con una realtà tutta italiana di quegli anni, tanto che, sempre dalle indagini emerse, gli stessi esponenti oscuri dei servizi segreti avrebbero persino dato il benestare all’omicidio stesso. Dietro il vile attentato, quindi, si nasconderebbe una trama oscura, fittissima e che rischia di portare le lancette indietro in un passato che mai avremmo voluto vivere.

Un passato in cui la criminalità organizzata non solo riusciva a parlare con lo Stato, ma persino a mischiarsi con quei servizi che avrebbero dovuto garantire la sicurezza nazionale. L’omicidio Mormile venne inizialmente rivendicato da una sigla all’epoca ancora sconosciuta, la “Falange Armata”, ma che nel corso degli anni successivi si sarebbe macchiata di diversi altri delitti, tra cui quelli compiuti dalla banda della Uno bianca. L’idea che dietro questa sigla vi possa essere una commistione tra servizi segreti e mafia fa rabbrividire, tanto più perché dimostra quanto la sicurezza italiana si sia poggiata su una instabilità cronica e pericolosissima.

Sull’omicidio del giovane educatore, comunque, la magistratura ha fatto dei passi in avanti (sebbene con enorme lentezza). Dopo le condanne in via definitiva emesse nel 2005 e nel 2008 nei confronti dei boss di ‘ndrangheta Antonio Papalia e Franco Coco Trovato (accusati di essere due dei mandanti dell’omicidio), gli inquirenti hanno provato in questi anni a far maggiore chiarezza su quanto accaduto trentadue anni fa. Nonostante a marzo di quest’anno si sia rischiata l’archiviazione del caso (richiesta, tra le altre cose, dalla stessa Dda milanese), lo scorso 22 luglio il giudice del Tribunale di Milano, Natalia Imarisio, ha respinto tale richiesta.

Non solo: nel corso della stessa giornata, lo stesso giudice avrebbe richiesto l’iscrizione sul registro degli indagati di due collaboratori di giustizia, Salvatore Pace e Vittorio Foschini, a dimostrazione del fatto che tanto di ciò che è accaduto in quell’aprile del 1990 deve ancora venire a galla. L’idea che un servitore dello Stato onesto e giusto come Umberto Mormile sia stato ucciso per aver testimoniato con i propri occhi il marcio di quegli anni richiede giustizia. Per questo si spera che, la svolta nelle indagini possa chiarire finalmente le responsabilità di tutti coloro i quali hanno voluto e realizzato la morte di un innocente.

Giovanni Dato -ilmegafono.org