“La memoria è determinante. È determinante perché io sono ricco di memorie e l’uomo che non ha memoria è un pover’uomo, perché essa dovrebbe arricchire la vita, dar diritto, far fare dei confronti, dar la possibilità di pensare ad errori o cose giuste fatte. Non si tratta di un esame di coscienza, ma di qualche cosa che va al di là, perché con la memoria si possono fare dei bilanci, delle considerazioni, delle scelte… Non si tratta di ricordare la scadenza di una data, ma qualche cosa di più, che dà molto valore alla vita”. (Mario Rigoni Stern).

Ci sono notti che calano sull’umanità che le accoglie con indifferenza, pensando che il buio durerà solo un attimo e che, comunque, non le riguarda. Così, una sera di tanto tempo fa, in una birreria di Monaco, un brindisi folle si alzava per annunciare la nascita di una notte che sarebbe stata lunga e fredda per tutti. Quella sera un imbianchino disse: “Se un giorno andrò al potere, la prima cosa che farò sarà distruggere il popolo ebraico”. Quell’imbianchino si chiamava Adolf Hitler, qualche anno dopo andò al potere e accese il motore di una macchina che cancellò cinquanta milioni di esseri umani, milione più, milione meno. Di questi, almeno sei milioni erano gli ebrei che vivevano in Europa. Generazioni intere furono cancellate e il male si presentò come nessuno lo aveva mai visto prima, pianificando scientificamente ogni strumento in grado di dare una soluzione alla folle convinzione che davvero una razza superiore avesse il diritto di dominare sugli altri. Una convinzione che da sempre faceva ombra al cammino dell’umanità e che, nel nazismo, trovava l’esecutore finale.

I cittadini ebrei furono i primi ad essere perseguitati dal nazismo. Poi vennero Rom, disabili e omosessuali, e via via tutti i dissidenti che si opponevano al pensiero nazista. Nell’inverno del 1942, nei pressi di Berlino, c’era chi discuteva la “Soluzione finale” della questione ebraica. Il piano per creare un Reich ariano, libero da qualsiasi contaminazione ebrea, era semplice: aveva il nome di Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Bergen-Belsen, Sobibor e Treblinka, Dachau e Buchenwald. Le porte dell’inferno, che tutto disperdeva nei forni crematori e nel fumo dei camini.

Prima di entrare nelle fabbriche della morte c’era il passaggio, per molti, nei campi di transito in Olanda e in Francia, ma anche in Italia: il campo di Fossoli allestito dal regime fascista nel 1942, usato prima dalla Repubblica Sociale Italiana e poi direttamente dai nazisti per la deportazione in Germania di ebrei e oppositori politici; Trieste, dentro gli edifici dello stabilimento per la lavorazione del riso: la risiera nel rione di San Sabba; e poi Bolzano. Dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano i treni giornalieri scaricavano umanità nei campi di sterminio nazisti: Mauthausen, Auschwitz, Bergen-Belsen erano i punti di arrivo. Il regime fascista italiano, alleato della Germania nazista, applicò le leggi razziali nel 1938 allineandosi al programma nazista con il “Manifesto della razza”. Delle migliaia di ebrei italiani deportati nei campi di sterminio tedeschi solo qualche centinaio riuscirà a sopravvivere.

Era il 27 gennaio del 1945 quando le truppe dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz, e il girone dantesco che tanti, in Europa e nel mondo, avevano finto di non vedere fino ad allora, diventava quella storia vera che nessuno poteva più negare: si chiama Olocausto, ovvero il genocidio degli ebrei d’Europa. Assieme agli ebrei – come detto in precedenza – il programma nazista travolse anche altre comunità, ma è innegabile che l’ostilità verso gli ebrei era fin dal primo momento parte integrante del programma politico e dell’ideologia nazista. Primo Levi, antifascista e scrittore, partigiano italiano, sopravvissuto all’inferno di Auschwitz dove era stato deportato nell’inverno del 1944 passando da Fossoli, scrisse che: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”. Il 1º novembre 2005 l’Assemblea delle Nazioni Unite ha istituito il Giorno della Memoria, indicando la data del 27 gennaio.

Tenere viva la memoria, per impedire che quanto acceduto possa ripetersi. Ma cosa ha insegnato l’orrore dell’Olocausto, cos’hanno imparato gli uomini dalla notte del Novecento? Ancora oggi qualcuno sostiene tesi negazioniste sull’esistenza dei campi di sterminio e sugli orrori del nazismo. Altri lo giustificano addirittura e altri ancora sognano di riproporlo. In Italia il negazionismo è un reato solo dal 2016 – grazie alla legge 116/2016 che ha aggiunto un comma alla legge 754/1975 – cioè solo dopo oltre settant’anni dall’ingresso ad Auschwitz. Il mondo è, ancora e sempre, attraversato dall’odio etnico e razziale. Un’osservazione anche superficiale della carta geografica del pianeta non nasconde nulla delle guerre e delle tragedie di cui il genere umano non riesce a fare a meno, e il concetto della superiorità razziale, etnica e religiosa, è ancora una bomba che nessuno sembra intenzionato a disinnescare. I “popoli senza terra” sono ancora un nemico da annientare, da isolare e rinchiudere fra muri e filo spinato. Al tempo stesso gli eredi del nazifascismo riprendono forza in Europa e non solo, tornano a sedere nei Parlamenti e a marciare nelle piazze con le loro teste rasate e le loro croci uncinate.

Quel Novecento che ha spento la luce sulla vita di chi aveva radici non ammesse non è ancora finito, è un secolo lunghissimo. Eppure, basterebbe ricordare una soffitta di Amsterdam e un nascondiglio dietro una libreria, dove una ragazzina di nome Anne raccontava la sua vita e i suoi sogni a un diario. Basterebbe salire su un treno e camminare accanto ai binari di ingresso ad Auschwitz, osservare il mucchio di scarpe e di occhiali, le casse piene dei capelli tagliati a chi entrava nelle camere a gas. Basterebbe leggere e ascoltare i racconti di chi è riuscito incredibilmente ad uscire dall’inferno, guardare i numeri identificativi marchiati sulla pelle. Basterebbe, soprattutto, provare ad ascoltare i silenzi di chi non riesce nemmeno a raccontare, perché i silenzi raccontano sempre qualcosa. Fermarsi un momento davanti a tutto questo e chiedersi come e perché sia stato possibile.

Se il giorno della memoria ha un senso, e lo ha, non può essere solo una celebrazione e una ricorrenza. Deve essere, o diventare, quel momento di riflessione che chiede e pretende risposte. Che chiede perché e come sia potuto succedere uno sterminio promesso e permesso, e se quella degenerazione sia ancora capace di riprodursi. Il nostro tempo ci dice che sì, è ancora capace di riprodursi. Dal 1945 ad oggi lo ha fatto in così tanti angoli del mondo che diventa difficile decidere da quale punto partire, il rischio è di dimenticare qualcuno: dal genocidio cambogiano a quello in Ruanda, dal popolo curdo alla striscia di Gaza, dalla ex-Jugoslavia a Srebrenica, dagli stadi del Cile ai desaparecidos argentini. E poi quella guerra, fra Ucraina e Russia, di cui oggi tutti hanno paura ma che nessuno vuole davvero fermare.

Sì, quella degenerazione è sempre possibile. Siamo solo noi, genere umano, che possiamo impedirla. Per riuscirci dobbiamo solo fermarci e sentire dentro di noi quella notte del Novecento e quel brivido di freddo e di paura, anche se non potrà mai essere uguale al brivido di chi saliva sui treni che portavano all’inferno. Ricordare sempre i nomi, i volti e le storie di chi è salito su quei treni e scacciare, sempre e ogni giorno, il tarlo maledetto dell’indifferenza, quell’indifferenza che una notte di tanto tempo fa ha permesso a un imbianchino di entrare in una birreria di Monaco ad annunciare l’orrore.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org