Sono passati trent’anni dall’ultimo numero di una gloriosa e indimenticabile testata: “L’Ora”. In questi giorni, infatti, è stata ricordata la pubblicazione dell’ultimo numero del quotidiano, che cessò definitivamente le pubblicazioni il 9 maggio del 1992 salutando i propri lettori con un “Arrivederci”, impresso in prima pagina. Nel libro “Vita da bestie: i miei animali e altre storie”, il giornalista Luca Goldoni scrive: “Una ragazza delle medie mi scrisse: perché sui giornali si parla solo delle cose che succedono e mai della vita? Anche la vita succede”. Di vite, di storie, di inchieste, di mafia e mafiosi, si è occupato questo giornale, uno dei migliori e più autorevoli quotidiani italiani, nato a Palermo, per iniziativa della famiglia Florio, e “vissuto” dal 1900 al 1992. La vicenda del quotidiano è intrecciata con quella della città di Palermo e con la carriera di tanti giornalisti diventati famosi.

Fondato all’inizio del ventesimo secolo, il giornale vive il suo periodo d’oro negli anni della direzione di Vittorio Nisticò, dal 1954 al 1975. È in quest’epoca che nasce il giornalismo antimafia e che tre generazioni di cronisti si formano nella redazione di piazzetta Napoli. Il racconto delle battaglie del giornale si intreccia così con i casi di cronaca più significativi e con i drammi che hanno portato alla morte di tre giornalisti de L’Ora: Cosimo Cristina, Mauro De Mauro e Giovanni Spampinato. Marcello Sorgi cerca di spiegare uno dei motivi per cui L’Ora divenne un punto di riferimento, il grande segreto che fece del quotidiano un faro del giornalismo: il lavoro di squadra. “Mi accorgo – scrive Sorgi – che da un libro che raccoglie gli editoriali e gli articoli più importanti di un direttore come Nisticò, questa sua capacità, questo impegno nel coinvolgere tutte le energie disponibili in un certo lavoro, non possono emergere chiaramente. È l’insieme di mestiere e passione civile, e ovviamente politica, che ha caratterizzato la prima generazione dell’Ora, quel gruppo di giornalisti ed intellettuali siciliani che conobbi da bambino e con i quali ho fatto i primi passi nella professione”.

È con Vittorio Nisticò che L’Ora divenne un giornale antimafia, un giornale che metteva sotto la lente di ingrandimento i fatti di politica intrecciati al terrorismo (soprattutto quello legato alla destra eversiva). Fu lui a chiamare giornalisti del calibro di Felice Chilanti, Nino Sorgi, Michele Pantaleone, Mario Farinella, Mino Bonsangue e tanti altri. La prima grande inchiesta dell’equipe capitanata da Chilanti scelse come bersaglio Luciano Liggio, chiamato “la primula rossa di Corleone”, un pezzo grosso il cui nome, però, per l’abilità del personaggio a nuotare nei bassifondi, a mimetizzarsi nella “nebbia”, allora non diceva nulla all’opinione pubblica. Liggio venne descritto per quello che era, ossia un feroce, potente capo della mafia di Corleone. I giornalisti de L’Ora, consegnarono al direttore uno scoop, che però era anche una patata bollente, e come tutte le patate bollenti, rischiose.

Nisticò fece la scelta giornalisticamente più audace: in dissonanza con lo stile ingessato dei giornali, sia nazionali che locali, decise di enfatizzare lo scoop “sparando” in prima pagina, il 15 ottobre 1958, la foto di Liggio sotto un titolo a nove colonne composto da un solo aggettivo a caratteri cubitali: “Pericoloso!”. Stanata nei suoi affari impenetrabili, cosa nostra non tardò a far conoscere la sua rabbiosa, criminale risposta: alle ore 4.52 di domenica 19 ottobre fece esplodere una carica di cinque chili di tritolo contro la storica sede de L’Ora nel centro di Palermo, danneggiando parte delle rotative. Tra il quotidiano L’Ora e cosa nostra era scoppiata una guerra. Da una parte stavano i giornalisti, uomini coraggiosi che non si piegavano alle minacce e raccontavano la vita a Palermo, la “vita che succedeva”, per dirla alla Luca Goldoni; dall’altra stava cosa nostra palermitana, strettamente imparentata con la destra eversiva, e il clan dei corleonesi che emergeva e prendeva spazio.

Tre cronisti vanno ricordati nuovamente: Mauro De Mauro, Cosimo Cristina e Giovanni Spampinato. Mauro De Mauro fu rapito da cosa nostra e mai più ritrovato. Il giornalista venne rapito la sera del 16 settembre 1970, mentre rientrava nella sua abitazione di Palermo. La sua sparizione è avvolta nel mistero. La sua scomparsa fa parte dei tanti misteri italiani e tra le varie ipotesi formulate sulle ragioni della sua sparizione figura anche quella relativa all’inchiesta sulla morte, secondo De Mauro dovuta a omicidio e non a incidente, del presidente dell’ENI Enrico Mattei. Una trama che si è intrecciata con altri affaire italiani quali il golpe Borghese. La figlia Franca racconta che, mentre il padre stava raccogliendo delle vettovaglie dall’automobile, lei era entrata nel portone di casa per chiamare l’ascensore. Non vedendolo arrivare uscì dal portone e intravide il padre circondato da due-tre persone risalire in macchina e andare via. Riuscì soltanto ad udire la parola “Amunì” (andiamo), rivolta a suo padre.

Cosimo Cristina fu assassinato, invece, il 5 maggio 1960 e la sua morte ricorda quella di Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio di diciotto anni dopo. Le circostanze dell’omicidio furono studiate dai mafiosi per far apparire tutto come se si fosse trattato di un suicidio. Infatti, venne trovato in un primo tempo morto sui binari delle ferrovie all’interno della galleria Fossola vicino Termini Imerese, e questo fece concludere agli inquirenti che si fosse trattato di un suicidio. Sarà il giornalista Mario Francese (anche lui vittima di mafia anni dopo) a far riaprire il caso. Giovanni Spampinato sarà assassinato dall’estrema destra il 27 ottobre 1972 a Ragusa, con sei pallottole esplose da due pistole. Stava indagando sui legami tra l’eversione nera e gli ambienti mafiosi. Tre giornalisti che hanno rappresentato cosa significhi fare questo mestiere, tre cronisti che hanno vissuto la loro vita rispettando l’etica di una professione che avevano scelto e per cui si sono sacrificati.

Ce lo ha spiegato bene Pippo Fava, altra vittima di quel grande immondezzaio che è cosa nostra, nel 1981: “Io ho un concetto etico del giornali­smo. Ritengo infatti che in una società demo­cratica e libera quale do­vrebbe essere quella italiana, il giornali­smo rappresenti la forza essenziale della società. Un gior­nalismo fatto di verità impedi­sce molte corruzioni, frena la vio­lenza e la crimina­lità, accelera le opere pubbliche indispen­sabili, pretende il fun­zionamento dei ser­vizi sociali. Tiene con­tinuamente in al­lerta le forze dell’ordine, sollecita la co­stante at­tenzione della giu­stizia, impone ai politici il buon gover­no. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero po­tute evitare se la pubblica verità avesse ri­cacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sa­rebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sa­rebbero pe­riti se la pubblica verità aves­se reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliac­cheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffa­zioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento!”.

È per questo che il quotidiano L’Ora manca. E manca tanto.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org