Ve la ricordate la mucca pazza? Era il 27 marzo del 2001 e il Ministero della Sanità firmava l’ordinanza che bandiva la bistecca fiorentina fino al 31 dicembre. Qualche mese dopo, la Casa delle Libertà vinceva le elezioni, poco prima che “La stanza del figlio” di Moretti riportasse la Palma d’Oro in Italia dopo 23 anni. E questo appena una settimana prima del suggestivo matrimonio di monsignor Emmanuel Milingo. A ottobre, poi, si sarebbe tenuto il primo referendum costituzionale della storia repubblicana, con l’approvazione delle modifiche al Titolo V della seconda parte della Costituzione, segnando il passaggio da uno Stato regionale ad una Repubblica delle autonomie. Era il 7 ottobre, con esattezza: due settimane dopo sarebbe stata celebrata per la prima volta la lingua italiana nel mondo, con una cerimonia, all’estero, lunga una settimana.

Oggi le celebrazioni della lingua italiana festeggiano la maggiore età. Negli anni si è parlato di lingua italiana e mare, di lingua italiana e scienza, e poi arte, territori, era digitale, musica… Quest’anno il tema è “il palcoscenico”, cioè – a detta di Nicola De Blasi e Pietro Trifone, che hanno curato un testo ad hoc su questo argomento – il modo di parlare che entra direttamente in contatto col pubblico. E mi piace, ok, ma mi sarei aspettato un tema in qualche modo più attuale, più pregnante, vista la liquidità totale della società che viviamo. Una società, a dirla tutta, talmente bollente e gocciolante da aver liquefatto, senza appello, pure la lingua.

Ecco, a diciotto anni di distanza dall’exploit culturale italiano al cinema, grazie all’uomo per il quale le parole sono importanti (proprio mentre veniva conclamata la follia della mucca), sarei stato felice di confrontarmi, da autore di un paio di libri passati sotto pochi selezionati occhi (selezionati più che altro dal sentimento di amicizia che ha spinto quella manciata di conoscenze che ho a sfogliarmi) con l’Accademia della Crusca (che organizza gli eventi celebrativi insieme al Ministero italiano degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale), e mi ci sarei voluto confrontare per fare una richiesta precisa: perché non separiamo la lingua italiana? Perché non scinderla, insomma, come con gli atomi? Separarla in due ioni: uno positivo, l’altro negativo. E lanciarci, quindi, in una sorta di nuova era linguistica a matrice scientifica, l’era della partizione linguistica, dell’italiano positivo e dell’italiano negativo.

Perché nell’anno in cui Giulia de Lellis firma un libro che scala le classifiche di vendita, e ammette candidamente di non aver mai letto un libro in vita sua (avendo rigorosamente affidato le parole che non sarebbe mai riuscita a trovare ad una gosthwriter – e beata la gosthwriter), non possiamo celebrare la lingua italiana nel mondo parlando di “palcoscenico”. Ma dai. È come se commentassimo il riscaldamento globale dentro un’enorme stanza con quarantacinque condizionatori accesi, tutti a 15 gradi.

Si gela a parlare di lingua italiana. Tra i celebrati ad Amsterdam (luogo deputato quest’anno per le cerimonie) ci sarà anche Camilleri (presenteranno la traduzione in olandese de “La Caccia al Tesoro” con una terribile copertina che a me ricorda i gialli scandinavi), e francamente non so cosa egli avrebbe detto a proposito di questo diciottesimo compleanno e delle statistiche nazionalpopolari. Io non ce l’ho con la De Lellis. Insomma: come operazione di marketing quella sua è fantastica, e a ben vedere bisogna sottolineare come stia monetizzando alla grande il successo sui social. Non Giulia, quindi. È col sistema che dovremmo prendercela.

Un sistema che assiste immobile all’impoverimento del vocabolario: “Il problema è la perdita del lessico che non sia proprio quello corrente. Non sto parlando di parole rare e preziose”, ha detto tempo fa a ‘Linkiesta’ il filologo Luca Serianni, ordinario di Storia della lingua italiana all’Università ‘La Sapienza’ di Roma. Serianni raccontò che un’amica insegnante gli rivelò, sconsolata, che un ragazzo al liceo non sapeva cosa volesse dire il verbo “cingere”. Il sistema, quindi, è il problema. Il sistema culturale. È evidente che presenta delle falle alla base: la dispersione scolastica parla ancora complessivamente di dati stabili intorno al 20% (che trovano un picco al Sud), con quasi due alunni su cinque che non finiscono le superiori o ne escono senza gli strumenti che avrebbero dovuto acquisire.

Ma quale “pubblico” sta di fronte la lingua italiana, se non la riconosce? Se quando sente raccontare di una città cinta d’assedio ha chiaro a malapena il concetto di città? Insomma: va bene stappare colli di franciacorta all’estero per applaudire le nostre parole, ma se poi uno va a cercare le sfumature trova che la celebrazione successiva in calendario è quella dei defunti.

Sebastiano Ambra -ilmegafono.org