A Silvia Romano non sarebbe bastato nemmeno morire per spegnere il rumore delle bocche marce dei produttori di letame e le penne acide e infami dei traditori di ogni forma di deontologia. Non le sarebbe bastato, perché avrebbero detto che “se l’è andata a cercare”. Avrebbero detto che in ogni caso la colpa sarebbe stata sua, della sua volontà di fare del bene, di lasciare una traccia di umanità e solidarietà in un mondo sempre più crudele e individualista. Ma Silvia Romano non è morta, per fortuna. Ha resistito, si è trovata nelle mani di chi non voleva ucciderla ma sfruttarne il rapimento per ottenere un riscatto. E per fortuna ha potuto scrivere, leggere, vivere senza subire violenze o torture.

Anche di questo però è ritenuta colpevole, al punto da diventare bersaglio di un Paese senza nazione, un Paese senza amor di patria, senza orgoglio nazionale. Un Paese che non riesce mai a sentirsi unito, mai a festeggiare la buona notizia che riguarda un suo concittadino o una sua concittadina, per di più qualcuno che non ha fatto del male a nessuno, ma anzi ha scelto di aiutare gli altri. Si chiama cooperare, un concetto che a tanti italiani sfugge, perché non ne sono all’altezza.

Per la gente normale di una nazione normale, per chi ha ancora un briciolo di buon senso e umanità, sapere che Silvia torna a casa sana e salva, dovrebbe essere motivo di sollievo e felicità. Sollievo e felicità per averla vista sorridente, per aver saputo che non ha dovuto conoscere l’orrore sul proprio corpo. Per gli  altri, invece, per quelli che usano le loro tastiere o il loro mestiere per vomitare odio e crudeltà, per coloro i quali mescolano la feccia di un Paese ipocrita e meschino, Silvia è colpevole di essere viva, di essere in salute, di essere salva e di non portare con sé un racconto dettagliato fatto di segni sulla pelle o stupri o chissà quali altre atrocità.

A questi ultimi italiani, a questa parte di popolazione di infimo valore, è stato tolto un racconto che avrebbero fortemente voluto, perché avrebbe confermato le loro certezze, ossia che i musulmani siano tutti e sempre feroci, che la vittima per essere vittima deve poter fornire dettagli di orrore da dare in pasto a fiumi di trasmissioni nelle quali la pietà diventa audience, per poi lasciare spazio agli insulti, al “chi glielo ha fatto fare”, al “mai fare del bene a quella gente lì”, al “così impara a non aiutare prima gli italiani”, e altro ancora. La serenità con la quale questa volta la vittima del rapimento ha potuto guardare in faccia la sua libertà ritrovata ha frustrato gli imbecilli da tastiera e animato il corpo decomposto di un giornalismo fallito, quello che un ordine di cristallo lascia agire indisturbato, senza sanzioni, ancora una volta.

Ovviamente, lei è diventata colpevole anche dei soldi che uno Stato avrebbe scelto di mettere davanti al rischio di perdere una vita umana. “La vita non ha prezzo”, dicono tante volte molti di questi stessi mezzi uomini da tastiera o da scrivania quando parlano di aborto, salvo poi cambiare prospettiva e dire che la vita un prezzo ce l’ha quando invece c’è da salvare una ragazza, soprattutto se è andata a fare del bene in terra straniera. “Troppo caro”, “eccessivo”, dicono, come se la vita fosse un capo d’abbigliamento o il salume di qualità dentro una boutique biologica. La cosa più desolante è che sono gli stessi che poi sbavano dietro a un fannullone da divano che guida un partito che ha sgraffignato 49 milioni di denaro pubblico solo per fare propaganda, investimenti ambigui in terra straniera o pagare social media manager per produrre spazzatura online.

Sono gli stessi che giustificano gli stupri quando le vittime sono straniere (a meno che non siano state stuprate da stranieri) e poi invece organizzano fiaccolate quando sono italiane. E tacciono, maledettamente tacciono, quando la violenza si compie in famiglia o tra ex coniugi o ex fidanzati o amici, rigorosamente italici. Sono la faccia sporca di questo Paese. Un Paese ipocrita che pensa che la libertà significhi poter fare scempio dell’umanità sui social e che qualsiasi intervento sanzionatorio sul web sia un attacco alla democrazia e che quindi è meglio lasciar fare, lasciarci ostaggio di questo scempio quotidiano.

Un Paese maleducato che dalla pandemia ha imparato solo a fare le pizze e il pane, ad allenare lo stomaco, a gonfiarlo sempre di più, mentre nulla ha dedicato alla riflessione, alla coscienza, alla necessità di ritrovare un briciolo di cuore, quello che Silvia Romano ha messo a disposizione degli altri, di bambini e persone che non conosceva ma che avevano bisogno di aiuto. Ecco, la pandemia non ha cambiato nulla. Gli applausi, le canzoni, gli hashtag pieni di umanità e senso di comunità erano solo bugie, erano solo una moda del momento da sfoggiare sui propri social, per vanità e per un pizzico di egoistica paura. Ma era solo finzione o al massimo una illusione sincera per qualcuno di noi.

Perché i Sallusti, i Senaldi, i Feltri, gli Sgarbi, le Meloni, i Salvini di questo Paese rimarranno quelli di sempre. Continueranno a schizzare il fango nel quale si agitano, aizzando i vigliacchi da tastiera. Gli altri, le ragazze e i ragazzi come Silvia Romano, coloro che in Italia o all’estero si mettono in gioco con la propria conoscenza e la propria umanità, continueranno a essere il meglio che abbiamo e a darci ancora un briciolo di speranza, di fronte all’idea di un Paese che sembra sul punto di annegare nella sua stessa melma.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org