In questo periodo nel quale la storia sembra aver messo da parte la memoria, in ogni sua forma, dovremmo iniziare a porci qualche domanda con riferimento a diversi ambiti. Ad esempio, cosa significa essere antimafiosi oggi? In cosa si traduce l’essere antimafiosi nel tempo in cui le mafie hanno indossato vestiti molteplici, modificando sempre di più la propria azione ed evolvendo in tante forme, spesso non immediatamente riconoscibili? Attenzione, non è una domanda da porre a magistrati e forze dell’ordine, che il crimine organizzato non hanno mai smesso di combatterlo e di analizzarlo, seguendone le mutazioni e adeguando anche gli strumenti di contrasto. Il quesito si rivolge a tutti gli altri, ai cittadini, agli attivisti, alle associazioni, agli insegnanti, agli scrittori, a noi giornalisti. E naturalmente anche agli imprenditori e a chi fa politica a qualsiasi livello. Lasciamo perdere i collusi, i lacchè, i codardi e i complici, occupiamoci degli altri, di quelli che verso le mafie provano almeno sdegno, avversione, rabbia.

A patto che questa rabbia esista ancora, perché qualche dubbio viene, visto che davanti a scelte che favoriscono le mafie, le piazze si riempiono poco o per nulla. Ma tant’è, ammettiamo che esista. In queste settimane, stiamo vivendo l’onda lunga dell’arresto di Matteo Messina Denaro e capita più spesso, rispetto al recente passato, di sentir parlare di mafia e di lotta alla mafia. Si è frantumata una pericolosa indifferenza che durava da troppo tempo. Ma forse, visto il modo in cui la gran parte dei media sta affrontando la questione, era quasi preferibile il silenzio. Perché, se parlarne significa sciorinare l’infinito elenco di dettagli insignificanti di una indagine, se significa sottolineare l’attività sessuale del boss, le schermaglie d’amore e gelosia con le compagne trovate durante la sua latitanza, se significa passare il tempo a incolpare il singolo cittadino di Campobello di Mazara di non avere avuto il coraggio di comportarsi da eroe, riconoscendo e denunciando un boss sanguinario e potente, allora è meglio tacere.

Questo, tuttavia, è il frutto di un calo di attenzione che, tranne qualche eccezione, è stato costante e vertiginoso in questo ultimo decennio. Ed è qualcosa che riguarda la società nel suo insieme e investe tutti i cittadini, inclusi coloro che da anni si impegnano per la diffusione della cultura antimafia. Sia chiaro, il lavoro di attivisti e associazioni è importante, soprattutto il lavoro fatto nelle scuole, con iniziative volte a sensibilizzare, a far conoscere esempi importanti, a costruire memoria. Ma cos’è la memoria del passato se poi non si hanno gli strumenti per metterla in esercizio nel presente? Nulla, è solo commemorazione sterile. Allo stesso modo, andare nelle scuole a parlare di mafie è fondamentale, ma ci chiediamo ogni tanto se è davvero giusto il modo in cui ne parliamo? Nel mondo attuale, gli esempi di chi ha combattuto ed è morto 40 o 30 anni fa sono validi e ancora robusti, vivi, pieni di significato. Ad essere cambiata, però, è la società nella quale esperire gli insegnamenti che la memoria ci offre.

Le mafie sono mutate e mutano con una velocità tale che perfino le narrazioni più note e recenti, che già erano incomplete, appaiono superate. Ecco perché, quando in una scuola dei ragazzi ci chiedono dov’è la mafia nel loro territorio e come si può combattere, è sempre necessario fare una pausa, prendere un bel respiro ed essere onesti. Con loro e con noi stessi. La mafia molto spesso non si vede. Opera sempre negli stessi ambiti, ma trova forme nuove, non sempre identificabili. La linea di demarcazione tra la giusta parte e quella sbagliata esiste ancora ed è netta, certo, ma la parte sbagliata spesso assume contorni che si confondono, si assottigliano. Ed è importante capire che può scegliere anche strade apparentemente legali. Con l’avvallo della politica e del tessuto economico di una città, di una regione, di una nazione. Davanti a questi scenari, chi sta dalla parte opposta deve cambiare strategie. Non può limitarsi a svolgere il compito della memoria raccontata, perché quello è solo un pezzo importante, ma nel lungo termine.

Nell’immediato, quello che conta è agire come quegli esempi che vengono raccontati, farli camminare davvero con le nostre gambe, senza lasciare che la lotta venga delegata agli eroismi solitari, ma soprattutto evitando di creare facili icone che poi, spesso, si rivelano dei bluff o personaggi la cui portata antimafiosa è del tutto misera, malgrado le autocelebrazioni o i vittimismi. Chi fa antimafia deve tornare all’essenza, smettendo di assegnare medaglie solo sulla base di una minaccia e di una relativa scorta. Perché non può essere quella la sola condizione che ti dà il senso della capacità di lotta di una persona. Se oltre alla scorta non c’è nulla, non ci sono battaglie importanti, né qualità particolari, allora è semplicemente una condizione. Nulla più. Non il totem da seguire e mandare nelle scuole a paragonarsi a chi è lontanissimo dalla sua storia e dalle sue qualità. L’antimafia dovrebbe rifiutare le etichette e dovrebbe anche smettere di litigare e di dare prova di essere troppo di frequente un luogo nel quale c’è chi si sente più in diritto di altri a parlare di mafie e a decidere quando e dove farlo. Nessuno ha il monopolio della lotta alla mafia. Nemmeno se ha un nome o un cognome importante.

Ciò detto, tornando alle scuole, c’è una risposta a quella domanda. Le mafie in un territorio sono presenti laddove si costruiscono artificiosi bacini di consenso. Spesso non sono necessariamente mafie, ma forme di potere che ne usano l’arroganza, ne ripropongono i comportamenti. Sono virus che infettano la cultura e la società e li stani quando ti accorgi che gli interessi di alcuni privati vengono difesi dal pubblico al punto da scatenare reazioni scomposte e campagne mediatiche a senso unico pur di tutelarli. Anche quando ciò va contro il bene comune. Se vediamo che la politica usa il grimaldello del consenso per spingere la popolazione ad accettare un’idea e, al contempo, isolare chi fa il proprio dovere, allora bisogna drizzare le antenne. Perché qualcosa si muove nei sotterranei di una comunità.

Se ad esempio un funzionario che fa il proprio dovere viene dileggiato, definito ostacolo, lasciato solo davanti a un’intimidazione, se viene spostato o messo da parte, perché si frappone tra un interesse economico enorme e la difesa di una norma civile, qualcosa non funziona. Magari non è mafia, ma sicuramente è una forma di potere che ha poca voglia di rispettare le regole e soprattutto di tutelare il bene comune. E di esempi simili, negli appalti (con i quali il governo nazionale ha deciso di giocare a vantaggio di certi sistemi) come nel turismo (la nuova industria sulla quale covano molteplici interessi), ne abbiamo tanti. Davanti a queste forme di potere, anche laddove non si tratti di mafia, ma di predoni senza scrupoli, bisognerebbe reagire, agire e prendere posizione. E invece, tanti nomi che si definiscono e si propongono come antimafiosi spesso tacciono. Per convenienze che talvolta sono politiche o legate a cordiali rapporti politici o personali.

Ecco allora perché ai ragazzi bisogna insegnare meno a commemorare e a ricercare etichette e più a esercitare memoria attiva, fatta di protesta, denuncia, libertà di pensiero, dissenso. Contro qualsiasi arroganza, soprattutto quando questa si sposa con il consenso di massa. Perché quelli che oggi, dopo anni, consideriamo eroi amati da tutti, un tempo furono i soli a dissentire, vennero ostacolati, combattuti e isolati anche da chi avrebbe dovuto e potuto sostenerli e proteggerli. Se pensiamo che l’antimafia si faccia solo quando porta consenso, allora vuol dire che la lezione non l’abbiamo capita e difficilmente potremo impartirla agli altri. Al massimo potremo commemorare, una volta l’anno. Scegliete voi il giorno, ha poca importanza.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org