12 dicembre 1969. Avevo dieci anni e in casa non c’era ancora la televisione, si ascoltava la radio e la radio parlava di uno scoppio alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana. Il tempo è passato, io sono cresciuto e, un giorno alla volta, i pezzi del puzzle si sono uniti a completare il quadro: ogni pezzo di quel puzzle ha un volto e un nome. Quel giorno, in quella piazza, è stata scritta la pagina iniziale del libro nero dell’Italia Repubblicana, la prefazione era già stata scritta il 1º maggio 1947 a Portella della Ginestra. Quella prima pagina è entrata nelle case con violenza, portando con sé i nomi dei morti e dei feriti, raccontando la lacerazione di una città, e le pagine successive di quel libro nero sono state il macabro messaggio che gli autori del libro continuavano a scrivere, in modo che a tutti fosse chiaro che il burattinaio che muoveva i fili non avrebbe mai permesso di chiuderlo.

Chi muoveva, e ancora muove quei fili, tesseva la sua tela di ragno e costruiva reti di protezione, complicità a tutti i livelli, quindi anche istituzionali. Soprattutto istituzionali. Tutto torna: la violenza fascista e le bombe, quel fascismo che nessuno aveva mai davvero cacciato di casa e che, come la mafia, non potrebbe esistere senza una rete di complicità e di protezione. Sono passati 53 anni da quel 12 dicembre, il libro nero è ancora aperto. La verità su piazza Fontana e su quello che sarebbe successo dopo e nei decenni a venire è scritta nella storia di questo Paese, ma la verità storica non interessa al burattinaio, perché nessuno ha pagato il conto con la giustizia, ed è la “verità” giudiziaria ad aver vinto: anni di processi, trasferiti da Milano a Catanzaro. Verdetti di primo grado, poi modificati o cancellati nei successivi gradi di giudizio, persino l’incredibile e vergognosa decisione di addebitare le spese processuali ai familiari delle vittime.

La verità storica, inconfutabile, ha stabilito che la strage fu realizzata dai fascisti e dalla cellula di Ordine Nuovo, ma Franco Freda e Giovanni Ventura (le menti di quella cellula), assolti con sentenza definitiva nel 1987, non potevano più essere processati. Eppure, prima di arrivare alla verità storica, prima che affiorasse tutta la palude in cui era immerso lo Stato con le sue istituzioni, prima che emergesse tutto il letame in cui si muovevano i servizi segreti, prima ancora che venissero alla luce i legami internazionali che condizionavano la vita politica e sociale della Repubblica, il burattinaio aveva già preparato la sua mossa. Quello era il momento di calare sul tavolo la sua carta: il depistaggio. Costruita ad arte e giocata subito, dopo poche ore dall’attentato, era cominciata la caccia agli anarchici. Loro erano il “mostro” da dare in pasto al Paese, alla stampa e all’opinione pubblica, e bisognava farlo subito.

È questa caccia che condanna Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, Partigiano. È lui, “Pino” Pinelli, la diciottesima vittima di Piazza Fontana: è il 15 dicembre, sono passati solo tre giorni dalla strage. Trattenuto illegalmente, oltre i termini stabiliti dalla legge, nelle stanze della Questura di Milano e senza nessuna accusa specifica contro di lui, Giuseppe Pinelli incontrò la morte mentre era nelle mani dello Stato. Quello Stato che, per bocca del questore di Milano, Marcello Guida, funzionario e direttore del confino di Ventotene nel ventennio fascista, si affrettò subito a dichiarare che Giuseppe Pinelli si era gettato dalla finestra a dimostrazione della sua colpevolezza. Non era così, la morte di Pinelli non fu un suicidio, ma l’ennesima vergogna e l’ennesima morte di cui lo Stato ha la sola, piena e totale responsabilità. Ma, anche per la morte di Pinelli, lo Stato trova la sua via di fuga: nell’ottobre 1975 è il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio a mettere la parola fine al processo sulla sua morte con l’invenzione giuridica del “malore attivo”, che esclude così sia il suicidio che l’omicidio di Giuseppe Pinelli. E, con questa sentenza incredibile, tutti gli indiziati saranno prosciolti.

12 dicembre 2022. Come ogni anno Milano ricorda quel giorno e quel dolore. Piazza Fontana si riempie: generazioni che si ritrovano accanto, nello stesso posto alla stessa ora, per qualcosa che va oltre la semplice commemorazione. Ci sono vecchi e meno vecchi, ci sono i ragazzi, gli studenti. Qualcuno ha fatto notare che, quest’anno, in coincidenza con un governo di chiara ispirazione fascista, il silenzio e l’assenza dello Stato sono stati un fatto grave. Non è così, lo Stato in piazza Fontana non è assente: è presente, con il suo vile silenzio e con il suo colpevole rumore. Lo stesso silenzio con cui cinquantatré anni fa preparò quella strage, lo stesso rumore con cui per mezzo secolo ha nascosto, protetto e difeso i suoi autori e i suoi mandanti. È con questo silenzio assordante che lo Stato fa sentire la sua presenza e la sua mano. Una mano che non ha nessuna intenzione di aprire l’armadio dentro cui nasconde tutti gli scheletri dei poteri occulti, deviati, collusi e massonici dello Stato. Sono gli scheletri responsabili di decenni di stragi e strategia della tensione.

In occasione di questo anniversario, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato una dichiarazione ufficiale che lascia spazio ad alcune considerazioni. Diventa difficile capire quali siano i servitori delle istituzioni che abbiano contribuito a “chiarire il contesto di aggressione al popolo e alla democrazia”. Più facile ricordare i depistaggi, le menzogne, le protezioni e la vergognosa storia dei processi che nel corso di mezzo secolo non sono mai arrivati a punire tutti i colpevoli di quella strage. Più facile ricordare il ruolo dei servizi segreti, la ferocia con cui le stesse istituzioni hanno condotto la caccia agli anarchici e tutte le indagini. Impossibile dimenticare i silenzi e le falsità sulla morte di Pino Pinelli nelle stanze della Questura di Milano, così come l’accanimento che ha distrutto la vita di Pietro Valpreda. Fra le istituzioni della Città di Milano, come dimenticare la gravità delle dichiarazioni del Questore, Marcello Guida? Come non ricordare la dignità e il coraggio di Licia Pinelli e delle sue figlie nel trovare la forza di ribellarsi alle verità ufficiali e difendere la memoria del marito e del padre?

Quel “contesto di aggressione al popolo e alla democrazia” non si è fermato in piazza Fontana: è proseguito negli anni successivi, nel silenzio passivo e complice delle istituzioni, trovando il culmine nelle stragi di Brescia e di Bologna, nella tragedia di Ustica. Non c’è stata alcuna sconfitta degli “eversori”: i nomi, i ruoli, le connivenze, le complicità dello Stato, dei servizi segreti, sono ancora colpevoli impuniti. Ad essere sconfitta, invece, è quell’idea di Stato, di democrazia e di giustizia, che i cittadini di questo Paese aspettano da troppo tempo. Sono loro ad aver difeso la democrazia, loro che non hanno mai smesso di cercare quelle verità che lo Stato ha sempre negato, ieri come oggi, e troppe volte questa ricerca è stata vissuta in solitudine, contrastata dalle istituzioni.

Il 12 dicembre 2022 ha confermato, una volta ancora, la presenza inquietante dello Stato attraverso il suo silenzio e anche attraverso le interpretazioni di molti organi di stampa. Dopo la cerimonia ufficiale, le strade della città sono state percorse dal corteo pacifico di molti cittadini, studenti e giovani. Sui quotidiani è stato descritto come il corteo degli “antagonisti”, a cui ha partecipato un centinaio di persone. Non è la realtà dei fatti, indipendentemente dal numero dei partecipanti di molto superiore alle stime di cronisti disattenti e imprecisi nel conteggio. Il significato di quel corteo che ogni 12 dicembre attraversa la città era un altro: era il ricordo di un passato e la denuncia di un presente che non riesce a fare i conti con il suo passato, era la voce di chi chiede verità e giustizia sulle “stragi di Stato”, era contestualizzare il clima di oggi in una città e in un Paese che aspettano un cambiamento che sembra sempre più una chimera.

Non importa che in quel corteo fossero duecento o duemila, l’importante era quella presenza che chiedeva risposte allo Stato e al sistema. Ma questo non è stato recepito dai mezzi di informazione perché non lo si è voluto recepire. Piazza Fontana è una piazza scomoda per lo Stato italiano e per Milano il 12 dicembre non potrà mai essere un giorno come gli altri. La memoria è una goccia che un giorno alla volta diventa fiume e cammina sulle strade e sulle coscienze delle persone. Qualcuno si ferma ad ascoltare il rumore di questa goccia. Qualcun altro la ignora, indifferente alla storia e alla dignità. Il libro nero è ancora aperto.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org