Qual è il confine tra informazione e speculazione? Qual è il limite da non superare nel raccontare storie, errori, scivoloni o cadute di stile? E quali sono, soprattutto, le conseguenze che certi comportamenti possono provocare? Il copione ormai è noto, tristemente noto, anzi. A intervalli più o meno regolari, accadono fatti che attivano i censori di media e social, individuano un colpevole, elaborano arringhe nelle loro personali aule di tribunale e poi ci scappa il morto. Letteralmente. È accaduto circa otto anni fa, con Tiziana Cantone, e la storia si è ripetuta un paio di settimane fa con Giovanna Pedretti. Due nomi di cui le cronache e i social si sono affollati, nella disperata e morbosa ricerca di colpevoli e colpe, dettagli torbidi e pruriti sul filo del rispetto della persona, abbondantemente trascurato. Due storie diverse, eppure legate da un filo rosso sangue, quello di cui si è macchiato la coscienza collettiva.

Tiziana Cantone era diventata famosa suo malgrado per un video intimo diffuso con troppa superficialità, un video che doveva restare privato e che invece ha trasformato la giovane in una fabbrica di meme e in un esempio da non seguire. Tra denunce, fiumi di stampa e approfondimenti, si è arrivati al tragico epilogo: Tiziana si è suicidata nel settembre 2016, portando con sé l’oscuro presagio di un precedente. E i social non erano ancora poi così distruttivi come lo sono diventati oggi.

Veniamo al caso di Giovanna Pedretti, una ristoratrice di Lodi finita al centro delle polemiche dopo una presunta recensione a sfondo omofobo fatta al suo locale. La storia è molto semplice: qualcuno avrebbe lasciato una recensione discriminatoria nei confronti di omosessuali e disabili, nella quale si leggeva “non torno più al locale perché al tavolo accanto al mio c’erano due gay e un disabile”. A questa recensione è seguita la risposta da manuale della ristoratrice, che invitava il sedicente cliente a non presentarsi più al locale. Plauso dei social, glorificazione, pil risalto della stampa, poi il baratro. Perché qualcun altro ha pensato di sbugiardare letteralmente la signora Pedretti, di fatto una “signora Nessuno” nel senso migliore del termine, sottolineando incongruenze e ambiguità nella recensione e nella relativa risposta.

Da eroina del giorno, a bestia nera: Giovanna Pedretti è finita nel vortice della gogna mediatica. La stampa l’ha buttata in prima pagina, i Tg regionali le hanno imposto interviste imbarazzanti, la sua leggerezza, un gesto sicuramente poco saggio, sia chiaro, le è costata una gogna molto più pesante delle stesse intenzioni. Pochi giorni dopo è stata trovata morta. Ancora una volta ci è scappata la vittima, ancora una volta, chi non ha le spalle troppo forti, non regge al peso di articoli, servizi al tg e vere persecuzioni social.

Senza additare colpevoli, carnefici o vittime, occorre riflettere con urgenza sul tema della sovraesposizione social e sulla gogna che troppo spesso, e a cuor leggero, si mette in piazza senza badare alla reale capacità di sostenerla. Perché non tutti hanno agenzie stampa e avvocati alle spalle. Quando l’ingenuità delle buone intenzioni, guidate forse da azioni poco lungimiranti, porta a conseguenze troppo più grandi, possono verificarsi scenari drammatici come quello di Giovanna e Tiziana. Storie recenti che si ripetono, ma dalle quali non riusciamo mai a imparare. Il gusto talvolta morboso di osservare dalla vetrina dei social, che di fatto consegnano a ciascuno il potere di giudicare, decidere e sentenziare, è una lama affilata di cui forse neanche una certa parte di stampa e opinione pubblica è davvero consapevole. Un’arma dal molteplice taglio che riesce il più delle volte a fare ciò che le è più congeniale: fare a pezzi chi è più fragile.

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