Mi si conceda una premessa del tutto personale. Il calcio in Italia era un bellissimo sport, ma da molti anni non lo è più. Non per colpa degli atleti, ma di quello che vi ruota attorno. Lo so, è una tautologia, un concetto che tante volte viene espresso, come un urlo al vento che poi il vento spazza via al primo soffio. Eppure questo concetto così banale alla fine rischia di non esserlo affatto, se è vero che nessuno ha fatto abbastanza per renderlo antico e superato. Il calcio è stato sporcato, a livello internazionale, dai soldi, quelli del Qatar, degli emiri, delle tv, dai tanti interessi economici che hanno prevalso sul gioco e sulle esigenze degli atleti, trattati come carne da macello (però ben pagata in modo che nessuno possa solidarizzare con loro), per sollazzare gli sponsor e, appunto, le televisioni. Il calcio, inoltre, soprattutto in certi Paesi, è rovinato anche dalla sottocultura del tifo, da un odio strisciante che ha schiacciato il confronto sportivo e il rispetto, trasformandolo in guerra perenne, una guerra nella quale la politica è entrata appieno, con la codardia tipica dell’estrema destra.

I gruppi ultras, in gran parte di ideologia fascista, hanno riempito gli stadi con orrori ripetuti, simboli e rituali macabri, scontri, espressioni di tutta quella che è l’inciviltà di cui la nostra epoca, degradata e involuta, è piena. In Italia, a differenza di altre nazioni, anche in questo ambito primeggiamo. Gli insulti razzisti, le discriminazioni, le frasi e i cori aberranti popolano gli stadi, spesso restando inosservati, addirittura coperti dalle minimizzazioni di parte, come se la lotta contro il razzismo fosse una questione di tifo, di fede calcistica. Abbiamo assistito alle farneticanti giustificazioni imbarazzanti delle istituzioni della società Spezia e delle istituzioni spezzine davanti agli insulti razzisti rivolti dalla curva locale a un giocatore serbo, Kostic, in forza alla Juventus, mentre usciva dal campo. Abbiamo assistito in silenzio alle offese contro altri giocatori, come Karamoh, del Torino, insultato dai tifosi laziali.

Ci sono voluti due gesti di ribellione, da parte di due giocatori più in vista, per spingere il mondo del pallone nostrano a spendere qualche parola in più e a pensare a qualcosa di più delle campagne video o di qualche messaggio letto in campo. Romelu Lukaku e Dusan Vlahovic hanno deciso che non ci stavano più, hanno reagito, uno più platealmente, l’altro meno, perché inseguito e fermato dall’arbitro. Entrambi sanzionati (scelta illogica) per aver risposto, per aver zittito quella parte di tifoseria che si era prodotta in offese razziste. La loro ribellione ha aperto un dibattito. Subito sporcato da un allenatore rozzo (Gasperini) e da alcuni opinionisti da balera, che hanno minimizzato, affermando che si tratta di maleducazione e non di razzismo, peraltro mischiando l’offesa personale (pezzo di m…., citazione di Gasperini), con l’offesa basata sull’utilizzo dispregiativo di un’etnia, dunque centrata sull’elemento razziale e dunque profondamente razzista.

Peggio di queste minimizzazioni, però, sono state le ipocrite prese di posizione della politica italiana, soprattutto del governo di Giorgia Meloni. Il ministro Abodi, il ministro Sangiuliano e persino il ministro Salvini sono intervenuti per condannare quanto avvenuto a Vlahovic. Bene, bravi… falsi. Ipocriti, perché appartenenti a un governo in cui risiedono personaggi, a partire dalla premier e dallo stesso Salvini, che nella loro storia politica hanno fomentato un odio feroce e costante contro “il diverso”, contro i migranti, anzi contro quelli poveri e dalla pelle nera, contro i rom, contro chiunque potesse essere usato come combustibile per accendere la fiamma della xenofobia utile a rastrellare facili consensi. Le ruspe ce le ricordiamo bene, ci ricordiamo bene anche certe dichiarazioni e certi atti di esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia. Come ci ricordiamo bene le parole di Matteo Piantedosi sulla sostituzione etnica, rispetto alle quali non mi pare che i ministri e la premier abbiano espresso condanna.

Eppure, l’allarme della sostituzione etnica è uno dei capisaldi delle teorie razziste. E non da ora. Ecco perché fanno ridere amaramente questi nuovi e finti alfieri dell’antirazzismo, fanno ridere e scuotere la testa le loro parole circa la necessità di adottare strumenti per fermare il razzismo dentro gli stadi e nello sport. Dimenticano, questi signori e queste signore, che il razzismo che vediamo negli stadi è quello che costruiamo ogni giorno al di fuori di essi, nella società in cui viviamo. Quella in cui per anni, esponenti politici oggi ministri e passionarie oggi premier, hanno vomitato le peggiori parole, veicolato i peggiori stereotipi, costruito divisioni sulla base delle provenienze, etnicizzando vergognosamente qualsiasi fatto di cronaca. E le vittime di questo irrespirabile clima di odio, di questo razzismo sdoganato politicamente, non erano e non sono sportivi famosi che hanno visibilità e possono difendersi e che, al massimo, possono beccarsi un cartellino giallo. Ma erano e sono persone che hanno dovuto subire, che hanno sofferto in silenzio o addirittura sono morti per gli assalti razzisti e fascisti di coloro i quali si sentivano protetti dal clima generale che qualcuno ha disumanamente e scientificamente costruito.

Anche la FIGC, la federazione che gestisce il calcio, pecca di ipocrisia. Perché se, dopo la grazia a Lukaku che sanciva una presa di posizione forte, si lascia che un altro giocatore, vittima dello stesso odio razzista, venga sanzionato, allora è tutta scena, sono tutte parole vuote. Il cartellino giallo di Vlahovic è inspiegabile e, nonostante ciò sia stato ammesso anche da chi dirige gli arbitri, la giustizia sportiva lo ha lasciato lì, come segno di un meccanismo inceppato. Inoltre, la si smetta di dire, come hanno fatto alcuni opinionisti o ex calciatori, che il razzismo nel calcio è un problema che non si risolverà mai. Nella nostra società è vero che ci vorrà del tempo, perché prima di tutto ci vorrebbero un governo e una classe politica con un alto senso di responsabilità, nel linguaggio, nelle scelte, nella cultura. Ma nel calcio gli strumenti per punire i razzisti ci sono e bisognerebbe spiegarlo sia a Gravina sia ad Abodi sia a molte società sportive.

Lo ha dimostrato la Juventus, andando a identificare subito gli autori dei cori contro Lukaku, denunciando 171 persone (destinatarie di Daspo, divieto di accedere allo stadio) e punendo i due principali protagonisti degli insulti con il Daspo a vita (per un maggiorenne) e con il Daspo per dieci anni (per un minorenne). Molto semplice: biglietto nominativo, telecamere, servizio d’ordine. Niente di impossibile (a proposito: perché l’Atalanta non lo fa?). Il punto è che basta soltanto la volontà, quella reale. Ma nel Paese in cui la premier vomita odio contro i migranti, nel Paese del naufragio di Cutro e dei respingimenti, nel Paese degli alfieri della sostituzione etnica, francamente risulta difficile credere che davvero ci sia la volontà di debellare il razzismo e i razzisti. Anche perché bisognerebbe iniziare da buona parte della politica. Il razzismo si combatte con l’educazione, la verità e con la definizione chiara (senza sfumature o tratti confusi) di quello che è razzismo. E poi con sanzioni esemplari e certe. Di sicuro, con l’ipocrisia non si va lontano. Si arriva giusto fino… alla prossima volta.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org