Il 23 marzo 1919, in piazza San Sepolcro a Milano presso il Circolo dell’alleanza industriale, nasceva ufficialmente il movimento dei “Fasci di Combattimento”. Quel movimento e il suo fondatore, Benito Mussolini, affondarono gli stivali nel fango e nelle ferite in cui si trovava l’Italia del primo dopoguerra. Conquistarono il consenso degli industriali dell’epoca e l’apprezzamento delle classi sociale più ricche. Tre anni dopo, il 28 ottobre 1922, le camicie nere marciarono su Roma, dove un codardo vestito da re s’inchinò davanti agli squadristi fascisti e consegnò il Paese nelle loro mani. La notte italiana, nera e lunghissima, cominciò così. Poche avanguardie seppero capire quello che sarebbe stato un ventennio maledetto. La maggioranza del Paese visse il ventennio fascista ubriacata e stordita dal sogno di quel nuovo impero promesso dal balcone di Piazza Venezia: chiuse gli occhi davanti alle violenze squadriste, all’assassinio di Giacomo Matteotti, agli assalti e agli incendi delle sedi sindacali e dei giornali.

Chiuse gli occhi davanti all’alleanza con la Germania nazista e alle leggi razziali del 1938, e non volle aprirli nemmeno all’annuncio dell’entrata in guerra: “Combattenti di terra, di mare e dell’aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania. Ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano”. Mentre Benito Mussolini annunciava la guerra, la folla applaudiva la follia in tutte le piazze d’Italia (clicca qui). Chiudere gli occhi è sempre un errore e una sconfitta, tante volte è maledettamente comodo. Eppure c’è chi scelse di non chiuderli: qualcuno che nelle fabbriche e nei posti di lavoro, nelle galere o al confino, ha lavorato in silenzio e in clandestinità per gettare un seme di ribellione, di dignità.

Perché quel seme potesse germogliare, però, bisognava crederci fino in fondo e nonostante tutto e, se dai semi nasce sempre un fiore, ebbene quel fiore è costato sacrificio, fatica e sangue, un giorno alla volta: nel marzo del 1943 arrivarono i grandi scioperi nelle fabbriche del nord, decisivi per la caduta del fascismo nel luglio dello stesso anno. E poi ancora scioperi e sabotaggi nel 1944. Il New York Times arrivò a descrivere quegli scioperi sulla sua prima pagina come “i più grandi scioperi nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti”. Gli operai di Torino, Genova, Milano pagarono un prezzo altissimo al loro coraggio e i treni che portavano ai campi di concentramento in Germania per un viaggio di sola andata raccontano anche la loro storia. Le montagne intanto accoglievano i ribelli, i Partigiani. Quel seme ha regalato alla storia un fiore che il tempo non riuscirà ad appassire: è il fiore del Partigiano, simbolo di quella lotta di Resistenza partigiana che pagò il prezzo più alto per la Liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista.

Sono passati più di cento anni dalla nascita del ventennio fascista, genesi di quella notte terribile, e quel ventennio pesa ancora come un macigno sulla vita di un Paese, l’Italia, che non ha mai saputo fare i conti con la propria storia, dimenticando le drammatiche ragioni di un conflitto tra la libertà e la bestialità nazifascista, incapace di chiudere per sempre una pagina che andava chiusa. Il vento di aprile apre quella finestra che impone non solo il ricordo e la gratitudine verso quella generazione capace di lottare per un sogno e un ideale di libertà, ma impone anche di non chiudere gli occhi di fronte a un presente in cui in molti provano a riportare indietro le lancette dell’orologio. La data del 25 aprile supera il confine del valore simbolico, è lo spartiacque fra due idee di vita che non potranno mai incontrarsi. Ci sono libertà da difendere e altre da conquistare, mentre quell’idea fascista che non si è mai spenta, in Italia e in Europa, prova ancora ad affondare i suoi stivali nel terreno fertile di una crisi sociale, economica e culturale che crea tutti gli spazi necessari affinché ciò avvenga.

I venti di guerra soffiano sul fuoco di questa crisi, e l’Italia di oggi ha scelto ancora una volta la vecchia strada: chiudere gli occhi, affidare la guida del Paese ad una destra estrema, xenofoba e razzista, che non nasconde di guardare al passato come ad un riferimento. Lo fa con le sue cariche più alte, con l’arroganza di chi sfida la storia. Cerca un nemico e quando non c’è lo crea. Costruisce con freddo calcolo la paura e distribuisce colpe: ai migranti, alle ONG, ai giovani e agli studenti, agli anarchici, ai poveri. A spaventare non è solamente la totale impreparazione e incapacità di chi, nei ruoli chiave delle istituzioni, guida questo Paese: è la sete di potere assoluto e di totale controllo sulla vita delle persone a mettere a nudo la vera natura di questa classe dirigente. Il rischio della deriva autoritaria si manifesta nel quotidiano esercizio di cancellare la parola “diritto” nella vita sociale e civile, nella scuola, nella sanità, nell’autodeterminazione, nelle scelte individuali, nella totale e disumana freddezza con cui si decide di chiudere le porte ai migranti, nell’ossessivo e ipocrita richiamo alla propria cristianità e a quella triade vista come il dogma assoluto: Dio, Patria e Famiglia.

Non è solo il calcolo politico a orientare le scelte di questo governo, c’è una dose altissima di malvagia cattiveria. Dalla strage di Cutro alle sprezzanti affermazioni del presidente del Senato sulla Resistenza Partigiana e sulle Fosse Ardeatine emerge tutto il disprezzo verso il senso di umanità e verso la storia. Le continue dichiarazioni di esponenti di governo sulla salvaguardia dell’italianità e sulla necessita di bloccare la “sostituzione etnica” sconfinano nella follia del suprematismo, e dietro il continuo richiamo alla “razza” si nasconde malamente il razzismo di base. Dietro le dichiarazioni e l’agire di molti esponenti del governo e delle istituzioni, dietro l’elogio e la condivisione del pensiero politico dei principali autoritarismi della destra europea è trasparente la volontà di camminare su quella stessa strada. È su questo terreno che oggi noi siamo chiamati a confrontarci e a vivere la nostra stagione di “Resistenza” ed è su questo terreno che il 25 aprile diventa qualcosa che va oltre la celebrazione.

Giovanni Gerbi – il Partigiano Reuccio – diceva che “la Resistenza non finisce mai…per finire di essere ribelli dobbiamo vedere un mondo giusto come lo vogliamo noi, ma quel mondo è impossibile, è solo un parto della nostra fantasia. Perciò, di ribellarsi non si potrà mai smettere.” E lui ha sempre camminato accanto alla “ribellione”. Lo ha fatto per tutta la vita, durante la guerra di Liberazione e poi negli ultimi anni della sua esistenza: sulle strade di Genova, nell’estate del G8, in quell’estate del 2001 quando il sistema e il governo di allora affossarono una generazione di giovani che potevano essere i suoi nipoti. Lo ha fatto sulle montagne della Val di Susa accanto ai ribelli di Venaus che si oppongono allo scempio della TAV. Una lotta difficile, quasi impossibile, ma che il vecchio Partigiano ha guardato in faccia senza nessuna paura, come l’ennesima e ultima sfida di una vita vissuta con passione e altruismo. La “città futura” di cui parlava Antonio Gramsci è quella città che tutti noi dobbiamo continuare a costruire e difendere, e per riuscirci bisogna essere Partigiani nell’animo, fare delle scelte.

C’è un bel ponte il 25 Aprile. Le scuole si fermano, le fabbriche chiudono i cancelli per qualche giorno, qualcuno si concede una vacanza che sente di meritare. Quel ponte ha i colori e il profumo di un fiore, è il fiore del Partigiano. Oltre il ponte c’è una strada e bisogna scegliere su quale lato della strada camminare. Qualcuno sta provando a riportare indietro le lancette dell’orologio. I nomi di questi “qualcuno” li conosciamo tutti da tempo, ognuno di loro ha una storia ed un passato da cui non hanno mai preso le distanze, perché quel passato è il loro presente e il loro biglietto da visita. Non lo hanno mai nascosto, e a loro sono state affidate le chiavi di casa. Ecco perché occorre, oggi più che mai, fare la guardia al ponte e a quel fiore Partigiano. Chiudere gli occhi una seconda volta non è accettabile. Buon 25 Aprile.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org