“Viviamo in un luogo ma abitiamo in una memoria…Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere” (José Saramago). Difficile trovare una definizione della parola “memoria” che sappia essere più intima e significativa di questa. Eppure, le finestre di quella casa che abitiamo sono quasi sempre chiuse per impedire al rumore di entrare. Ci piace il silenzio sordo che abbiamo costruito dentro quelle quattro mura che ci proteggono dal rumore e dal freddo che insistono fuori dalla nostra porta. Quello che accade là fuori non ci riguarda, e quelle parole, memoria, responsabilità, perché mai sentirle come un bisogno, un dovere? Da dove arriva tutto quel rumore che pretende di disturbare la nostra vita? Arriva da lontano e noi non lo abbiamo mai preso a pugni e, adesso che vuole tornare, non vogliamo ancora riconoscerlo. Eppure lui si è presentato, non si è mai nascosto: parla ancora la stessa lingua di un tempo, usa le stesse parole e alimenta ancora le stesse paure di allora, mai superate veramente.

La nostra casa è costruita con la paglia della memoria persa, dimenticata. Non riusciamo ancora a capirlo e non lo vogliamo ammettere. Tenere le finestre chiuse però non serve, il rumore e l’aria cattiva entrano comunque dalle fessure di quella memoria che non ascoltiamo. La notte del Novecento è stata una pagina terribile della nostra storia, la tempesta perfetta figlia dell’indifferenza dei tanti che hanno fatto finta di non vedere quel cielo nero sopra l’Europa, ma è stata dimenticata in fretta. Eppure è stata una notte lunga, sporca di infamia e di vergogna, non l’abbiamo mai sconfitta se è vero che ancora oggi esce dalle fogne della vita. Un giorno alla volta ha riconquistato forza, vigore e potere, anche grazie al silenzio e all’indifferenza dei più. Già, l’indifferenza. L’amica più fedele e vigliacca degli uomini, la stessa che in quella notte del Novecento ha permesso ad un folle imbianchino di urlare al mondo i suoi 25 punti programmatici nei locali dell’Hofbräuhaus, una birreria di Monaco di Baviera.

La stessa indifferenza che nel nostro Paese ha permesso le leggi razziali del 1938 e che non vedeva i treni che partivano, ogni giorno, dal Binario 21 della stazione Centrale di Milano. Quei treni caricavano e scaricavano umanità per i lager nazisti, che poi si perdeva nel fumo dei camini di Auschwitz, Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau e Mauthausen. Oggi vengono i brividi nel vedere la seconda carica dello Stato, e di una Repubblica nata dalla Resistenza contro il nazifascismo, recarsi in visita a quel Binario 21. Il Presidente del Senato della Repubblica, l’erede culturale di quegli stessi mostri che hanno imposto le leggi razziali e avallato quei treni della morte, è lo stesso uomo che ancora oggi si dichiara orgogliosamente fascista. La sua presenza su quel binario della morte è un’offesa inaccettabile alla memoria di chi su quei treni è stato caricato e non è mai più tornato a casa. Amaro che sia stato invitato a quel binario da chi ha conosciuto i lager nazisti e lì ha perso tutta la sua famiglia.

Il tempo è passato su quella notte, scivolando sulla memoria e sulla coscienza degli uomini. Si racconta che gli uomini possono cambiare, ma non è vero. Gli uomini sono allievi distratti della storia e troppo spesso imparano dai cattivi maestri. La storia è una partita a carte, al tavolo verde in tanti barano e lo fanno a carte scoperte. La bestia del Novecento alza ancora la voce e grida parole che tanti condividono e fanno proprie: confini, razza. Muri mai crollati veramente, che chiudono ogni speranza di vita e di futuro a intere generazioni e c’è sempre una vittima da azzannare, c’è sempre una “striscia” di umanità da cancellare, a qualunque latitudine e a qualunque parallelo. Con la legge della Repubblica n. 211, 20 luglio 2000, il Parlamento italiano ha istituito il “Giorno della Memoria”: due semplici articoli, in commemorazione della shoah e in ricordo delle leggi razziali approvate sotto il fascismo e di tutti gli italiani, ebrei e non, uccisi, deportati ed imprigionati nei lager nazisti.

Qualche anno dopo, il 1º novembre 2005, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 60/7, proclama il 27 gennaio Giornata Internazionale della Commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto. Il 27 gennaio, il giorno in cui nell’inverno del 1945 i soldati russi della 60ª Armata entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz, rivelando al mondo quello che per tanti anni il mondo stesso aveva finto di non vedere. Tutto a posto quindi, tutto in ordine con la coscienza e con la storia? No, c’è sempre quel rumore che arriva dalla finestra e che passa attraverso ogni fessura e parla ancora di violenza e di lager a cielo aperto, di umanità negata, di pulizia etnica. È il rumore che racconta dell’annientamento di esseri umani. Ed è lì che la memoria viene messa all’angolo, dimenticata.

Le origini di quell’annientamento affondano sempre le radici sulla prima bestemmia dell’uomo: il concetto di razza. C’è sempre qualcuno che pensa di essere il ramo migliore dell’albero, dimenticando che i rami di quell’albero sono tanti, ognuno con la sua storia e le sue foglie. È giusto fermarsi e ricordare ciò che è stato, guai se così non fosse, ma non cogliere l’ombra del passato che scende sul presente offende una volta di più le vittime di quel passato. Non si rende giustizia alle vittime della Shoah se non si interrompe il macabro e tragico equilibrismo, intellettuale e politico, di chi rifiuta a prescindere di analizzare e condannare le politiche dello Stato di Israele. Confondere la condanna di quelle politiche con l’antisemitismo e non vedere il pericolo del pensiero sionista è un grave l’errore. Colpisce e amareggia che il silenzio sulle politiche dello Stato di Israele arrivi anche da chi, nella notte del Novecento, ha pagato in prima persona un tributo umano grandissimo.

“Viviamo in un luogo ma abitiamo in una memoria…Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo”. La nostra responsabilità, allora, ci impone di non chiudere gli occhi di fronte a quello che oggi sta succedendo nel mondo e ci obbliga a ricordare che ogni volta che si sono chiusi gli occhi, fingendo di non vedere, gli uomini si sono persi. In questo Paese, ma non solo in questo Paese, esiste un potere, politico e di governo, cinico e ipocrita che alimenta forme spaventose di indifferenza e violenza. Si mimetizza dietro parole ferme, ma non si risparmia nessun tentativo di riscrivere la storia e di offendere chi quella storia l’ha subita. Lo fa dai banchi del Parlamento e nelle piazze, nei salotti televisivi e nella vita di ogni giorno.

Primo Levi scriveva che “La memoria è come il mare: può restituire brandelli di rottami a distanza di anni.. Oggi più che mai è davvero così, la memoria e il mare restituiscono sempre tutte le verità che inchiodano gli uomini alle loro responsabilità, anche quelli che indossano il vestito pulito in occasione delle “giornate internazionali per…” ma poi, il giorno dopo, costruiscono muri. La memoria ci racconta la nostra storia, il mare ci restituisce quello che resta di chi ha provato a scappare da ogni tempesta della vita. Quella memoria e quel mare il giorno dopo sono già dimenticati. La memoria deve essere la compagna di viaggio di ogni giorno che ci obbliga a capire e ci costringe a fare i conti con noi stessi, con il nostro passato e con il nostro presente. È la sola strada capace di costruire un futuro. Quando questo non succede diventa allora la celebrazione di un giorno, utile solo per provare a lavarsi la coscienza.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org