Nessun crimine come l’omicidio di un figlio da parte della propria madre ci lascia così inermi e sbigottiti. Di fronte a fatti come quelli atroci di cui sentiamo parlare nelle cronache, la domanda che nasce spontanea in ognuno di noi è: come può una madre uccidere un figlio? Quali sono i motivi che la spingono a compiere questo orribile gesto? La risposta che tranquillizza la società, e quindi tutti noi, di fronte a certi casi, è senza dubbio quella di attribuire alle madri una patologia mentale, giustificando il gesto come follia, perché non è normale che una madre abbia la voglia, il desiderio o l’impulso di uccidere il proprio bambino o la propria bambina. Attribuire questo gesto alla pazzia ha uno scopo rassicurante, sia perché funge da spiegazione, sia perché allontana da noi l’ipotesi di poterlo commettere in quanto soggetti sani o, come ci piace dire, normali.

In questi ultimi mesi ci sembra di essere sommersi da notizie del genere, di genitori (in particolare madri) che uccidono i propri figli. Questi fatti evocano nella memoria la nostra infanzia, quando, piccolissimi, avevamo paura delle liti dei nostri genitori e della loro rabbia, domandandoci oggi se le nostre madri possano aver avuto l’intenzione o il solo pensiero di ucciderci in quei momenti, di farci del male o di abbandonarci; per i genitori, rievocano invece episodi della vita in cui si sono sentiti così tanto arrabbiati nei confronti dei figli che la loro reazione è andata oltre i limiti consueti, accettati, spaventati dalla capacità di tale violenza, mai conosciuta prima. È abbastanza tipica la frase: “Io ti ho fatto e io ti distruggo!”.

Nel profondo della mente di padri e madri si insinua un pensiero pericoloso e segreto che riguarda la paura che possano anche loro, prima o poi, commettere un atto impulsivo nei confronti del proprio bambino. A volte, però, la patologia non sta solamente nella persona, ma anche nell’ambiente familiare e nelle sue dinamiche. Lo psichiatra americano First e altri suoi collaboratori hanno parlato di sindrome chiamata Disturbo Relazionale (Relational Disorder), nella quale non è considerato malato il singolo individuo, ma un gruppo di soggetti e la relazione che intercorre tra loro. Può quindi accadere che un soggetto con tale disturbo, se osservato da solo, non riveli nulla di patologico. È il modo con cui alcune persone interagiscono all’interno di specifiche relazioni che può risultare disturbato, con modalità del tutto simili a quelle che caratterizzano la malattia mentale.

L’etnopsichiatra Paolo Cianconi, in modo provocatorio ma convinto afferma che non tutte le madri che uccidono i propri figli sono “matte”. In un post scrive, rivolto ad alcuni suoi colleghi: “Ma insomma. Vi riesce così difficile includere la violenza deliberata in atti come questi nella realtà? Cosa non è chiaro nel fatto che invidia, ferocia, egoismo estremo, machiavellismo sono presenti nella vita e fanno parte della variante della “norma”? Deve essere per forza matto un individuo che commette un assassinio inconcepibile e orrendo? Che abbiamo fatto a fare una battaglia per proteggere dallo stigma della pericolosità dei pazienti psichiatrici? Queste persone sono degli psicopatici. Più sani di voi e di me. Ma molto più determinati e violenti”.

L’individuo psicopatico costruisce bugie, confabula, è istrionico, narcisista, si arrampica sugli specchi in maniera disinvolta quando viene messo davanti ai fatti che ha compiuto. Lo psicopatico riesce ad ingannare tutti, avvocati, psicoterapeuti, giudici, familiari, pur di ottenere ciò che anela. Lo psicopatico, in genere, è un lucido assassino. Ora, come può una madre uccidere il proprio bambino o la propria bambina Accade, purtroppo e i motivi possono essere tanti e svariati. La maggior parte delle “madri assassine” conduce una vita coniugale pressoché felice e regolare fino a che eventi gravi ed inattesi (un lutto, un trasferimento, la perdita o il cambiamento di un lavoro, la gravidanza in sé) ne turbano gli equilibri. A scatenare l’evento è, dunque, una particolare condizione di mancanza di sostegno coniugale,  familiare e sociale, unita ad una personalità immatura, spesso incapace di accettare il proprio nuovo ruolo genitoriale. In sostanza si tratta di donne che, non avendo mai reciso il cordone ombelicale con la loro “genitrice”, appaiono più figlie che mamme e, sentendo il figlio come una propagazione di se stesse, ritengono di poterne disporre.

Il termine genitrice non significa affatto madre. È risaputo che avere la possibilità di generare non crea, in automatico, il padre o la madre. Cura, tenerezza, sostegno, presenza, riconoscimento, contenimento, trasmissione, umiltà, comprensione. Essere madre, esserlo davvero, è tante cose. Ma tutte queste cose, con la procreazione, c’entrano poco o nulla. La maternità, non la si può definire solo da un punto di vista biologico, giuridico, sociale o anche semplicemente anagrafico. Anzi. La filosofia è madre. La letteratura è madre. La scienza è madre. La Terra è madre. L’Arte è madre. L’educazione è madre. La Chiesa, per chi crede, è madre. Può essere madre anche una donna che non ha figli. Può esserlo un uomo (con o senza figli). La maternità è quella inclinazione (che si può avere o meno indipendentemente dal fatto di generare o non generare figli) che permette di creare legami, sostenere, proteggere, incoraggiare, accompagnare, riconoscere, suscitare vocazioni. La maternità è universale, a patto di uscire dalle vie anguste della biologia o del diritto e di entrare nel percorso simbolico della creatività e della trasmissione.

Cosa accade a chi quella inclinazione non la possiede eppure ha generato un bambino o una bambina e vive in una società come la nostra? Carmelo Asaro, ex magistrato in pensione, scrive: “Ciò di cui oggi si soffre non è un eccesso di diritti, ma un difetto di solidarietà. E lo Stato dovrebbe farsene carico, apprestando e pubblicizzando rimedi di emergenza, concepiti in modo da evitarne l’abuso, a sostegno di genitori single sull’orlo del precipizio psichico. Un tempo questo compito era svolto dai vicini di casa, dal cortile, dalla famiglia allargata. Oggi la disperazione nasce dal vuoto dei rapporti umani ed è alimentata da questo vuoto”. Perché non permettere, aggiungo, alle persone single (uomini o donne) o alle coppie omosessuali che hanno una naturale vocazione alla maternità o alla paternità, di adottare dei bambini e diventare padri e/o madri? Che Stato è quello che lascia nella disperazione della solitudine i suoi cittadini e non tutela, in modo corretto, l’infanzia?

Bertold Brecht, in una sua opera “Dell’infanticida Maria Farrar” nata in aprile, “senza segni particolari, minorenne, rachitica, orfana”, che uccide il proprio bambino appena nato, recita: “Maria Farrar, nata in aprile, defunta nelle carceri di Meissen, ragazza madre, condannata, vuole mostrare a tutti quanto siamo fragili. Voi, che partorite comode in un letto e il vostro grembo chiamate, contro i deboli e i reietti non scagliate l’anatema. Fu grave il suo peccato, ma grande la sua pena. Di grazia, quindi, non vogliate sdegnarvi: ogni creatura ha bisogno dell’aiuto degli altri”.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org