La guerra è entrata ormai da tempo nelle nostre case, con il suo scenario drammatico di orrori, atrocità, notizie, verità documentate e altre da strappare ai filtri unti della propaganda. Nel dibattito pubblico, il conflitto in Ucraina ha naturalmente catalizzato l’attenzione. Anche sui social, in quel guazzabuglio impazzito che spesso riduce ogni tematica, pure la più complessa, ad un argomento da bar, si parla ovviamente di Russia, Ucraina, Putin, Zelensky, Nato e così via. A volte lo fanno persone competenti, utilizzando l’esperienza o condividendo articoli di esperti osservatori e studiosi di geopolitica, altre volte, invece, lo fanno cittadini comuni, che fino al giorno prima litigavano sui vaccini o sul calcio. O anche cittadini che si informano, ma che si fidano troppo dell’una o dell’altra parte, preferendo le ideologie o le emozioni all’osservazione critica. Il punto è sempre lo stesso: i social, si sa, sono la patria della polarizzazione, il luogo in cui il ragionamento viene fagocitato dalle fazioni che inevitabilmente si creano.

Ogni ragionamento viene così esposto con aggressività o comunque con la sicumera da statista navigato, senza troppi spazi per il dialogo. Ci sono i putiniani, quelli che sostengono il diritto della Russia a difendersi (anche con le bombe) dall’accerchiamento della Nato; ci sono i zelenskiani, quelli che paragonano il leader ucraino addirittura a Churchill; infine, c’è un bel miscuglio informe di complottisti (con ampia percentuale proveniente dalla schiera social dei no vax) o di estremisti antiquati che, per sottolineare le responsabilità (reali) della Nato sulla situazione attuale, dimenticano che al momento è Putin a sganciare le bombe e a sparare sui civili e che questo non può essere giustificato in alcuna maniera. In questo ampio dibattito si contrappongono quotidianamente i guerrafondai, i pacifisti, i “sono pacifista, ma…”, gli “armiamoci e partite”, eccetera. Insomma, il solito caos. Ma sono i social e, se si vuole, è molto semplice difendersi: basta ignorarli, spegnere il pc o lo smartphone.

Quello che invece è di gran lunga più preoccupante è ciò che la politica esprime e decide. Perché le conseguenze e i rischi che comporta sono reali e non si possono ignorare o spegnere con un click. Qualche giorno fa, a Montecitorio, in collegamento video, è intervenuto il presidente ucraino Zelensky, applaudito dalla maggior parte delle forze parlamentari italiane. Una figura curiosa Zelensky, e non per il fatto di essere un ex attore comico. È un leader strano, che con Churchill non c’entra nulla. Un leader con responsabilità pesanti che ora ha bisogno di aiuto per tirare fuori l’Ucraina dal conflitto. Un capo di Stato che ha reagito all’assalto russo imponendo ai suoi cittadini di resistere (con l’aiuto però di mercenari, nazionalisti, neonazisti che fino a un tempo fa tutti noi guardavamo con orrore) e che oggi, nei suoi discorsi, usa un linguaggio più legato alle emozioni che alla strategia politica, alla ricerca di una soluzione che fermi il massacro.

La sola azione politica di Zelensky è quella di chiedere quotidianamente alle potenze Nato di intervenire e, in pratica, di scatenare un conflitto mondiale, troppo spesso citato nei suoi discorsi. Insomma, un leader dai due volti, per alcuni coraggioso o persino eroico, per altri irresponsabile e incapace. Ad ascoltarlo c’era anche il premier italiano Mario Draghi, colui che viene considerato l’uomo della Provvidenza, il solo in grado di portare l’Italia fuori dal guado della crisi economica aggravata dalla pandemia. L’uomo che, insieme al suo ministro Cingolani, ha sfruttato la guerra e la crisi con la Russia per accentuare una politica di sviluppo energetico basata su logiche che guardano ancora indietro, al carbone e perfino al nucleare. Draghi non è certo un fine politico, lo si è compreso bene, ma parla ricoprendo il ruolo politico principale di questo Paese. E dunque farebbe bene a ricordarselo quando interviene in questioni così delicate.

“L’Italia – ha affermato il premier – vuole l’Ucraina nell’Unione europea”, aggiungendo di voler disegnare “un percorso di maggiore vicinanza dell’Ucraina all’Europa”. “È un processo lungo – ha ribadito – fatto di riforme necessarie. L’Italia è a fianco dell’Ucraina in questo processo”. Una affermazione che è una presa di posizione chiara, manifesta. Un cerino acceso accanto a una bombola di gas. La scelta netta dell’Italia di schierarsi non idealmente con le vittime di un’aggressione, ma politicamente e militarmente. D’altronde, da quando è iniziata l’aggressione russa in Ucraina, il nostro Paese ha immediatamente rinunciato a giocare qualsiasi ruolo di mediazione, di negoziazione, come si converrebbe a uno Stato importante nello scacchiere geopolitico europeo. Uno Stato che, purtroppo, ha smarrito da molto tempo il suo vecchio ruolo di primo piano nel cercare soluzioni ai conflitti.

Curioso che proprio Draghi, al quale si è sempre riconosciuto il pregio di essere una figura apprezzata a livello internazionale, sia il protagonista di una presa di posizione minuscola, pericolosa, dissennata. Che si esplicita nel supporto militare, già approvato dal parlamento, all’Ucraina (anticipando la scelta della NATO), il che vuol dire armi, mezzi e soldati donati a un fronte che non è costituito solo da quelli che Draghi chiama “eroi”, ossia cittadini che provano giustamente a difendersi, ma anche da squadroni di vario genere e formazioni paramilitari. Ma al di là di queste specificazioni, rimane l’aspetto più grave: ossia coinvolgere il Paese in una guerra pericolosa, schierandosi militarmente con una delle forze in campo, in barba all’articolo 11 della Costituzione, in barba a qualsiasi opportunità diplomatica (mai percorsa appunto) ed esponendo tutti a una grande minaccia. L’Italia ha accolto Zelensky offrendo più di quello che la logica del momento richiedeva.

Lo ha fatto ostentando il sostegno aperto all’Ucraina, curiosamente aggredita militarmente proprio da quella Russia alla quale l’Italia ha continuato a vendere armi anche dopo l’embargo post Crimea. Il festival dell’ipocrisia, come quello delle sanzioni e dei sequestri agli oligarchi, gli stessi ai quali abbiamo per anni svenduto porzioni di città e di mercati. Ancora una volta siamo in mano a una politica incapace di visioni diverse, una politica che partecipa al conflitto invece di farsi promotrice di pace e di una cultura della pace. Si risponde agli orrori della guerra con un dibattito centrato sulla necessità di aumentare le spese militari. Si risponde alla guerra con la cultura della guerra. Un atteggiamento che anche l’Europa, nel suo insieme, sta mostrando, e che invece dovrebbe iniziare a rivedere e ricalibrare.

Questa è la politica che ci ha portato in una situazione esplosiva. Questo è il governo che rischia di portare il Paese dentro il conflitto. Su quali basi, dopo quale dibattito e, soprattutto, in nome di chi? Di certo non di chi continua a credere che la strada della diplomazia, della pace e delle azioni politiche condivise sia la sola percorribile per fermare i massacri e porre rimedio a una situazione che, proprio chi oggi sembra spingere verso la guerra, ha contribuito a creare. 

Massimiliano Perna -ilmegafono.org