Il 31 maggio, dopo circa un anno di tira e molla, è stata lanciata la tanto decantata “Netflix della cultura italiana”, ovvero “ITsART”, che già dal nome fa percepire un fortissimo sentimento di identità nazionale con uno sguardo volto al futuro. Perché se anche voi inizialmente avete pensato che il nome scelto fosse puramente anglofono, vi sbagliate! È un originalissimo gioco di parole che prevede una doppia valenza linguistica. “In che senso?”,  verrebbe da chiedere, ma in realtà è più semplice di quel che sembra: “IT” sta per Italia, come si evince anche dall’evidente tricolore della lettera “T” di questo accattivante font a bastoni ultrafino facilissimo da leggere, e rimanda anche al dominio web “.it”, che comunica subito una forte consapevolezza e padronanza del mondo digital.

Il gioco di parole con la frase inglese “It’s art” (“È arte”) è un modo originale e divertente che la piattaforma assume per strizzare l’occhio all’Europa e al resto del mondo, lasciando sempre uno spiraglio di internazionalizzazione. Ma che sia giusto uno spiraglio, in quanto non esiste una versione inglese. Ed anche se la chiamano “Netflix della cultura”, questa piattaforma è andata oltre: pensate che non si paga l’abbonamento, ma l’acquisto o il noleggio di un singolo prodotto, così ogni cliente sarà libero di costruirsi la propria “libreria virtuale”. E se magari trovate contenuti a prezzi spropositati che potete ritrovare gratis su piattaforme come RaiPlay non è colpa loro: loro pagano licenze diverse.

Ma come è nata ITsArt? È in progettazione da circa un anno, quando il primo lockdown ha messo in ginocchio il sistema museale italiano fino ad allora troppo scettico e spaventato nei confronti del digitale. Così, con sprezzante coraggio e ammirevole determinazione, il ministro della Cultura, Dario Franceschini, ha deciso di realizzare una piattaforma digitale in cui musei, teatri e più in generale, creatori di cultura, avessero la possibilità di avere il loro spazio virtuale in cui offrire contenuti digitali per gli utenti con un triplo vantaggio: una persona può comunque vedere uno spettacolo teatrale, il teatro recupera i soldi del biglietto e il ministero guadagna in reputazione nazionale e internazionale. Vincono tutti. 

Ma chi, in Italia, con competenze statali, ha le capacità di realizzare e gestire una piattaforma on-demand del genere? Se anche a voi è venuta in mente la Rai, date comunque le ottime prestazioni e la piacevole navigabilità di Raiplay in primis e visto che sarebbe stata una strategia per cercare di far girare l’economia interna, beh, vi sbagliate.

Il ministro si è infatti rivolto all’azienda americana Chili spa, ma Draghi ha provato ad impedirglielo con la scusa di una temibile privatizzazione. Così il nostro eroe ha trovato la soluzione: una società mista tra pubblico e privato. La parte pubblica è rappresentata dalla Cassa dei Depositi e prestiti con quota di maggioranza del 51% x 510.000 euro e 509 milioni per logo, immagine e campagna di lancio; mentre, con la quota di minoranza al 49% x 6 ,milioni, abbiamo la parte privata, rappresentata dalla statunitense Chili che, guarda caso, ha presentato una valutazione fatta da una piccola azienda romana che ha stabilito un valore proprio di 6 milioni per la piattaforma che mette a disposizione. Insomma, non ha sborsato un euro.

Pensate che all’estero le realtà culturali miste si formano con lo scopo principale di far sostenere alla parte privata le maggiori spese economiche in quanto è più semplice per loro prendere finanziamenti. Menomale che il nostro ministro è così furbo da non farsi intortare sistemi che funzionano, ma ha la straordinaria capacità di stravolgerli per migliorarli e farli finalmente fallire miseramente.

Ma era proprio questo quello che serviva alla cultura italiana: una piattaforma streaming dove guardare a pagamento contenuti gratuiti di altre piattaforme, dove trovare gratis, con pubblicità, contenuti video dei 5 grandi musei del momento (GNAM – Roma; MANN / Pompei – Napoli; Museo Egizio – Torino; Museo della Scienza L. Da Vinci – Milano). Perché non ci serve una riforma che regolarizzi il lavoro culturale, non serve stabilizzare i milioni di precari, non c’è mica bisogno di assumere giovani ed esperti che guidino ed educhino le realtà culturali ad un corretto e più produttivo uso del digitale, non serve finanziare le piccole realtà provinciali e comunali che portano avanti tutta una serie di tradizioni locali.

A noi piace proprio così questa situazione: con i soliti che mangiano, i privati che speculano, i lavoratori, o sottopagati a progetto o facciamo meglio se volontari, manutenzioni inesistenti e niente fondi per un qualsivoglia piano strategico di crescita decennale. Perché si sa, con la cultura non si mangia. E questo non cambierà.

Sarah Campisi -ilmegafono.org