Nella tragica fine di Musa Balde è possibile rintracciare tutto quello che è miseramente diventato il nostro Paese. O forse tutto quello che è sempre stato, anche quando nascondeva i suoi artigli sanguinosi dietro l’irritante, falsa e autocelebrativa cantilena degli “italiani brava gente”. Musa Balde non si è suicidato, ma è stato ucciso, è stato istigato alla morte. Non solo dai tre criminali che lo hanno pestato a sangue due settimane fa a Ventimiglia, ma dallo Stato, dalla burocrazia, da un Paese nelle cui vene scorrono retorica e vigliaccheria, crudeltà e grettezza, razzismo e odio nei confronti dei disperati. In questa vicenda c’è tutto quello che da anni mette di fronte gli ultimi e chi attorno a loro ha costruito esclusione, menzogne, trattamenti inumani, crudeltà. Nella politica come nella cittadinanza, negli uffici dello Stato come per strada.

In questa drammatica storia, c’è la disperazione di un ragazzo di 23 anni venuto da lontano, da quella Guinea ricca di risorse e rapinata sistematicamente da multinazionali, potenze straniere e regimi al loro servizio. Un ragazzo che non aveva trovato il diritto di restare, smarrito come tanti nel carnaio dell’anonimato quotidiano, intrappolato nelle maglie di chi alla speranza e al cuore degli esseri umani ha scelto di prediligere un pezzo di carta e un timbro. Musa era uno dei tanti che cercava solo una vita migliore, come hanno fatto milioni di italiani per oltre un secolo, spostandosi ovunque nel mondo. Italiani che non avevano un Paese in guerra, né persecuzioni alle quali sfuggire, ma solo fame e voglia di lasciare una miseria che si appiccicava ai loro occhi e alla loro carne. Una memoria smarrita, per i nostri connazionali, oggi violentemente egoisti, tremendamente vigliacchi, incapaci di accogliere e capaci di individuare alibi, addurre scuse, senza mai trovare una propria responsabilità, senza mai riconoscere il proprio razzismo e la propria cattiveria.

Italiani che oggi usano una derivazione della parola “buono”, che un tempo era ritenuto un aggettivo di valore, per criminalizzare la bontà. Il buonismo è diventato infatti un disvalore, qualcosa da deridere, una sorta di ingenuità che somiglia tanto a quella che i bulli riconoscono nella loro vittima, che di quella bontà diventa improvvisamente colpevole. Musa Balde è stato massacrato mentre chiedeva l’elemosina davanti a un supermercato di Ventimiglia. Un luogo doppiamente simbolico di quello che è oggi lo scarto di umanità che il capitalismo e l’Europa compiono quotidianamente. Un supermercato, laddove si acquista il cibo che altri possono solo elemosinare, perché non hanno non solo il denaro ma nemmeno il diritto di trovare un lavoro, il diritto di esistere. E poi Ventimiglia, quel luogo di confine nel quale l’Europa ha ucciso i diritti umani. Un luogo di passaggio nel quale Francia e Italia hanno giocato a braccio di ferro per poi unire i pugni e assestarli sul volto tremante e disperato dei respinti.

Una vergogna che si compie da anni, qui e in altri confini europei nei quali l’umanità viene gettata via come l’umido in scadenza di un supermarket. Musa è stato pestato con l’accusa di aver tentato di rubare uno smartphone. Un’accusa lanciata però solo da uno dei suoi aggressori e smentita da molti testimoni. Un’accusa che è uno squallido tentativo di ottenere una giustificazione sociale, sapendo che oggi c’è chi è disposto ad accettarla quella giustificazione. Perché se un nero ruba o prova a rubare è tollerato che venga massacrato di botte, naturalmente in branco. Il nero non può essere uguale agli altri nemmeno nella disperazione o nel commettere un reato. Gli italiani, quelli che si genuflettono davanti al boss di quartiere o al criminale bianco che li vessa o li rapina, diventano leoni con chi è indifeso, solo, ultimo. Eccola l’Italia vera, quella che venti anni di menzogne, di razzismo, di Lega, di fascisti di ritorno e di giornalisti e conduttori tv criminali, ha reso sempre più visibile e accettata.

Musa Balde, suo malgrado, ha conosciuto nel profondo questo Paese. Ha conosciuto l’orrore delle province e dei paesini, delle loro mentalità becere, della loro chiusura, dell’odio verso la diversità che scorre nelle piazze, nei bar, nei gruppi di amici. Anche nelle grandi città non mancano queste logiche, sia chiaro, ma da nord a sud, i piccoli centri, le città di provincia dalle quali ad esempio provengono i tre aggressori, sono spesso uno stagno putrido nel quale la violenza e l’odio trovano fin troppa linfa. Poi c’è la burocrazia, quella che sui migranti ha scelto di aggiungere ferocia, ingiustizia, disprezzo. Musa ha conosciuto anche questo ed è rimasto solo. Lasciato colpevolmente solo a Torino, dentro un maledetto CPR (centro per i rimpatri) dove vengono rinchiusi la disperazione e il fallimento di sogni e progetti che sono spesso la sola occasione che la vita concede. Detenzione senza reato, punizione senza colpa, se non quella di avere una carta che dice che tu, qui, in questo maledetto Paese che dà origine e ospitalità a mafiosi, corrotti, razzisti e omofobi, non ci puoi stare.

Magari la decisione l’ha presa un burocrate ottuso, un funzionario imbecille che odia i neri o che pretende che la tua storia sia perfetta, senza la minima contraddizione, altrimenti sei spacciato. Le chiamano commissioni, ma molto più spesso sono accolite di servi che obbediscono alle richieste di ministri spietati che hanno bisogno di ridurre le cifre, per poterle poi sventolare alla fiera del consenso. Cifre, numeri, non esseri umani. Anche Musa è stato un numero. Uno dei tanti. Uno che viene picchiato, malmenato, mandato in ospedale e poi da lì rinchiuso, senza che nessuno lo sentisse, senza che nessuno si preoccupasse della sua denuncia e della sua condizione o di rilasciare un permesso per motivi giudiziari per consentirgli di ottenere giustizia, una giustizia che in questo Paese non è affatto uguale per tutti.

Perché gli uguali, in Italia, sono quelli che dopo aver compiuto un pestaggio violento si ritrovano solo denunciati e a piede libero. Mentre i disuguali sono quelli abbandonati e i cui piedi finiscono per penzolare dentro una stanza squallida, alla fine di un corpo appeso a una corda. Una corda il cui cappio è stato stretto da tutti noi, dai silenzi, dalle mentalità, dall’indifferenza. Da chi pensa che un migrante possa accettare tutto, dallo sfruttamento alle leggi ingiuste, da soluzioni alla buona a rinvii o attese che noi non potremmo mai accettare di buon grado. Musa Balde lo abbiamo ucciso noi, che continuiamo a rimanere buoni mentre la politica, esclusa qualche dichiarazione di facciata, tace e non mette mai davvero in discussione non solo le leggi e se stessa, ma anche la vera natura di un Paese al quale non bisognerebbe solleticare la pancia, ma educare la testa e il cuore, per estirpare una cattiveria che produce tragedie su tragedie.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org