Cassibile non è solo il nome di un luogo finito dentro i libri di storia a raccontare la firma di un noto armistizio. Non è nemmeno soltanto il nome di un fiume importante né il marchio di garanzia di una delle fragole più buone della Sicilia sud-orientale. Cassibile, che piaccia o no ai suoi abitanti, è anche un luogo infimo e ipocrita. Un luogo brutto, urbanisticamente e moralmente. Sia chiaro, non è consuetudine di chi scrive generalizzare né ignorare le eccezioni, le diversità, le persone di cuore che calpestano anche il suolo di questa circoscrizione di Siracusa, di questa frazione rurale che sogna da sempre di divenire un comune.

Cassibile, però, fino ad ora ha mostrato principalmente queste caratteristiche negative e a nulla varranno la rabbia e le accuse di chi, come sempre, replicherà dicendo che è facile giudicare da una tastiera e da un tavolino dentro a un salotto (che poi vai a capire perché pensano sempre che tu scriva da un salotto). Chi scrive conosce Cassibile da molti anni, lo ha attraversato, si è infilato nelle campagne, ha respirato il sudore dei braccianti, ha condiviso il calore afoso che ingiallisce e arde le erbacce e inaridisce la terra, ha visto la sofferenza, la rabbia civile, la dignità dei lavoratori migranti, i segni della violenza subita, il razzismo dei rappresentanti politici e degli abitanti, la meschinità dei caporali e l’inerzia di chi avrebbe potuto fermarli e farsi condurre dai “padroni”.

Cassibile è inferno e ipocrisia, ma talvolta è anche umanità, solidarietà e amicizia. Lo è soprattutto grazie ai lavoratori migranti, a quegli stagionali che, da marzo a luglio, popolano le campagne, i campi, le terre dove patate, fragole, finocchi, fagiolini aspettano di essere raccolti da braccia e mani forti. Un piccolo nucleo di esseri umani (tra 300 e 400 persone in totale durante la stagione) che arrivano da tutta Italia, in base a quel perpetuo spostamento tra le aree rurali delle diverse regioni, a caccia di un impiego. Eserciti pacifici di lavoratori, quasi tutti regolari, gente che vive in Italia anche da molti anni, ragazzi giovani e uomini adulti che un tempo facevano gli autisti di qualche azienda a Roma o gli operai specializzati a Brescia e a Torino o i camerieri nelle zone balneari, gente schiacciata dalla crisi che li ha estromessi dal mondo del lavoro e che ne mette a rischio la durata del permesso di soggiorno.

Gente che deve vivere, come qualsiasi altro disoccupato, come chiunque altro che perda il lavoro e debba provvedere a sé o alla propria famiglia, coprire le spese, pagare l’affitto, sostenere i figli, mangiare, andare avanti. Loro non possono permettersi di rimanere fermi ad aspettare tempi migliori. Si spostano, si allontanano dalle proprie città, del nord e del sud, per iniziare una via crucis tra le zone dello schiavismo. E anche se oggi a Cassibile ci sono più contratti e qualche azienda in regola in più rispetto al passato, di certo non cambia l’atteggiamento ostile della gente nei confronti di queste persone, costrette ad arrangiarsi per mangiare o dormire.

Isolati e osteggiati, si organizzano in piccole comunità nei terreni intorno a Cassibile. “Hotel Sudan”, li chiamano alcuni di quei casolari nei quali vivono e badano a sé stessi, sperimentando una forma di comunità solidale che permette a ciascuno di loro di non sentirsi abbandonato e di trovare qualcosa da mangiare. Non li aiuta nessuno, a parte la rete di volontari di padre Carlo, un prete che non è di Cassibile, ma viene dall’altra parte della città, dalla periferia nord di Siracusa, a portare amicizia, vettovaglie, medicinali da banco, con l’aiuto di semplici benefattori o di ong come la tedesca Seehilfe, da tempo sensibile al tema dei migranti. Ci pensano loro a dare un sostegno ai lavoratori.

Questo perché il resto della città dorme, assopita nella sua indifferenza e nella sua abulica malinconia di antiche grandezze, i sindacati agonizzano non facendosi vedere da secoli nella zona, mentre il sacerdote della chiesa sita nel cuore di Cassibile, a quanto pare, non sembra molto interessato a questa umanità, a questi ultimi che trova sul suo cammino. Magari è uno di quelli che pensano che vengano prima gli italiani, anche quando gli italiani a lavorare in campagna non ci vogliono andare. Chi invece in campagna ci va sono i proprietari dei fondi nei quali i migranti si accampano, talvolta con delle tende per ripararsi dall’umidità della notte che li separa da un nuovo giorno di duro lavoro. Ci vanno e denunciano, segnalano, avvisano i carabinieri del posto.

Così riparte il consueto show dell’ipocrisia, con i gendarmi che con solerzia segnalano i migranti alla procura per invasione di terreni. Azioni alle quali fanno eco il coro gracchiante delle rappresentanze politiche della circoscrizione e il chiacchiericcio molle della maggior parte dei residenti del borgo, arrabbiati, indignati, i quali spesso sono gli stessi che poi utilizzano o hanno utilizzato in passato manodopera in nero o, peggio ancora, caporali e metodi schiavisti. Spesso sono gli stessi che si sono schierati contro le tendopoli e le soluzioni abitative dentro una zona nella quale si preferisce tenere le case sigillate e vuote piuttosto che affittarle regolarmente ai lavoratori, almeno a quelli provvisti di contratto.

Soluzioni abitative per una emergenza che emergenza non si può definire, se è vero che a Cassibile il fenomeno del lavoro stagionale va avanti da oltre venti anni, peraltro in un luogo che si è formato nel secolo scorso proprio grazie agli stagionali siciliani provenienti dalla provincia o da altre province dell’isola per lavorare le terre del marchese di Cassibile.

Sono zelanti e tignosi i cassibilesi e le loro rappresentanze nel rifiutare la presenza dei migranti, nel denunciare e punire chi osa occupare un terreno o farsi vedere troppo in giro. Anche i carabinieri del posto sono sempre pronti a intervenire per verificare le occupazioni o l’uso dell’acqua di trivelle con cui qualcuno osa placare la propria sete o riempire qualche secchio per potersi lavare. Peccato che poi tale zelo e tale prontezza, se si considerano il numero e la tipologia di inchieste condotte dai carabinieri, non si riscontrino in grande misura nell’andare a stanare gli schiavisti, i caporali che assoldano la gente alle prime luci del mattino nel cuore di Cassibile, i proprietari loro mandanti, i delinquenti che provano a fregare i lavoratori in mille modi, quei proprietari che, chissà, magari si fanno pagare per un posto letto in un casolare diroccato.

C’è voluta la Guardia di Finanza, un paio di anni fa, per cominciare a indagare sulle aziende che non rispettano le regole. Anche se in un periodo nel quale già i giorni più intensi di raccolto erano finiti e le presenze si erano quasi azzerate. Ma è stato comunque un bel segnale, che però non basta. Ciascuno fa il suo lavoro come meglio ritiene, ci mancherebbe, e non tocca a noi entrare nelle logiche di intervento e di definizione delle priorità, ma di certo possiamo suggerire al prefetto e al questore che più che un Comitato per l’ordine e la sicurezza, servirebbe un Comitato per l’umanità e contro l’ipocrisia.

Ed esso dovrebbe volgere la sua attenzione a tutti coloro i quali politicamente continuano a trattare Cassibile come un’emergenza e non intervengono, invece, con soluzioni abitative temporanee, dignitose, sufficienti e dotate di servizi, che eviterebbero ai lavoratori di doversi adattare a vivere tra casolari, fronde di alberi e tende improvvisate e a beccarsi ogni anno l’ipocrita denuncia per invasione dei terreni. Al prefetto e al questore possiamo consigliare di fare una bella segnalazione alla procura, ma non nei confronti dei braccianti, bensì nei confronti di chi occupa gli scranni del potere ad ogni livello: per invasione di luogo istituzionale.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org