I pm di Caltanissetta, il 9 luglio 2023, dopo indagini accurate, hanno chiesto l’archiviazione in merito alle “rivelazioni” del mafioso catanese Maurizio Avola, sulla strage di via D’Amelio. Le sue parole non hanno convinto il pool nisseno, che considera “frottole” tutto quello che l’ultimo “corvo” di quella strage ha dichiarato. Con la sua solita spocchia, il mafioso Avola, parlando con il suo legale Ugo Colonna, ha commentato così la decisione dei magistrati nisseni: “Avvocato, se i magistrati non mi vogliono credere, niente ci fa”. Sono passati 31 anni e non esiste ancora verità per quel massacro, avvenuto il 19 luglio 1992, alle 16.58, all’altezza del civico 21. Chi è arrivato sul posto, poco dopo la strage, si è trovato di fronte l’inferno: fiamme, auto bruciate, proiettili che, a causa del caldo, esplodono da soli, feriti, gente che urla chiedendo aiuto, sangue, fumo e corpi morti, corpi bruciati, corpi dilaniati. Sei morti: il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina.

I giudici del tribunale di Caltanissetta hanno definito la strage e tutto quello che ne è seguito “il più grande depistaggio della storia d’Italia”. Dichiarazioni fuorvianti, quelle di Maurizio Avola, che sono state inserite nel libro del giornalista Michele Santoro “Nient’altro che la verità”, scritto assieme al contributo di Guido Ruotolo. “Io posso dire che c’ero e sono uno degli esecutori materiali della strage di via d’Amelio. E sono l’ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino prima di dare il segnale per l’esplosione”. Sono queste alcune delle parole dell’ex killer di cosa nostra catanese, con cui nel 2021 – in maniera tardiva e rocambolesca – ha tentato di riscrivere la storia delle stragi messe in atto dalla mafia nei primi anni ‘90. Ed ora, a mettere la parola fine alle “dichiarazioni” del mafioso è, appunto, l’istanza di archiviazione. I racconti di Avola sulla strage del 19 luglio 1992 non hanno trovato alcun riscontro oggettivo dagli accertamenti investigativi sia di natura documentale che storica.

Ennesimo depistaggio a cui non si rassegna la società civile e la famiglia Borsellino, che, attraverso le parole di Fiammetta, figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio, dice: “Uno Stato che non riesce a fare luce su questo delitto non ha possibilità di futuro. Dopo trent’anni di depistaggi e di tradimenti noi non ci rassegniamo e continueremo a batterci perché sia fatta verità sull’uccisione di nostro padre. È per questo motivo che la mia famiglia ha deciso di disertare le cerimonie ufficiali sulle stragi del ‘92, non a caso mia madre non volle funerali di Stato, proprio perché aveva capito”. Dopo la strage le prime indagini, a seguire il primo processo “Borsellino uno”, in cui viene arrestato Vincenzo Scarantino, in seguito ritenuto inattendibile dai magistrati; a seguire, altre indagini, altro processo, il “Borsellino bis”, dove entrano in ballo i nomi di Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Giuseppe Graviano e altri criminali, molti dei quali saranno condannati in via definitiva. Nel 1998 inizia un altro troncone del processo, denominato “Borsellino ter”, dove entrano in ballo cosa nostra catanese e i suoi nomi eccellenti, da Nitto Santapaola a Giuseppe Calò, insieme a tanti altri, tra cui anche il corleonese Bernardo Provenzano.

Intanto si aprono altre indagini sui mandanti occulti della strage e sulla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, fino ad arrivare ad un ulteriore processo, il “Borsellino quater” e alla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia. Ancora altri processi e centinaia di depistaggi, fino all’ultimo, quello di Maurizio Avola. Nei cinquantasette giorni che separano la morte di Giovanni Falcone da quella di Borsellino, il magistrato indaga senza sosta sulle ragioni della strage di Capaci, sulle ragioni della morte dell’amico, riprende in mano i fascicoli su cui aveva lavorato con Falcone, segue nuove piste, ascolta collaboratori di giustizia, si reca a Roma. Sa che il tempo a disposizione per lui è poco, sa di essere braccato, percepisce che una parte dello Stato è contro di lui, contro la verità, sa che il prossimo sulla lista di cosa nostra sarà essere lui. Lo sa lui e lo sanno in molti, dentro e fuori il palazzo di giustizia, dentro e fuori la politica. Eppure nessuno si occuperà di intensificare la sua sicurezza.

Le indagini sulla strage presentano da subito anomalie, vuoti, improvvise sparizioni di oggetti e verbali. Per oltre vent’anni però nessuno se ne accorge e l’indagine, guidata dal capo della mobile Arnaldo La Barbera, coordinato dai pm di Caltanissetta, viene portata davanti ai giudici del tribunale. Con vicende alterne, regge davanti a diversi gradi di giudizio e trova il sigillo della Cassazione in ciascuno dei filoni processuali in cui si articola a partire dal 1996. Per oltre vent’anni tutto quello che abbiamo saputo su via d’Amelio era falso, ma processualmente accertato. I magistrati di Caltanissetta hanno provato a dare una risposta: dopo tre gradi di giudizio (Borsellino uno, Borsellino bis, ter) il processo Borsellino quater è stata un’inchiesta sull’inchiesta. Dopo aver guardato in una sola direzione per due decenni, i pm della procura di Caltanissetta stanno ora cercando ovunque. Diversi fascicoli sarebbero stati aperti sui nodi irrisolti della strage. Perquisizioni e intercettazioni sono state disposte persino a carico di alcuni giornalisti, alla ricerca di fonti di notizie, dei pezzi mancanti.

Quella della procura di Caltanissetta è una lotta contro il tempo. Un tempo, secondo molti, già scaduto. Quattro processi non sono bastati per chiarire misteri, anomalie e depistaggi. Come la scomparsa dell’agenda rossa che il giudice portava sempre con sé e che dal giorno della strage sembra scomparsa, inghiottita fra i tanti misteri che affollano questa strage. E gli appunti, l’inchiesta cui stava lavorando negli ultimi giorni della sua vita, tracce importanti che sono state cancellate, perse, per imperizia o per complicità. La strage di mafia più impenetrabile della Repubblica aspetta ancora la verità. Una verità che dobbiamo a noi stessi, al futuro del nostro Paese, perché come disse Paolo Borsellino “la lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.

A fronte dei tanti depistaggi, purtroppo, non hanno vinto, al momento, i movimenti culturali, la bellezza e la libertà, ma i compromessi morali, le contiguità e le complicità di apparati dello Stato. Ha vinto il puzzo, al momento. Per adesso.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org