Mahsa Amini era una ragazza curdo-iraniana, aveva 22 anni e una ciocca di capelli che usciva da quel velo che doveva invece nasconderla, così come si nasconde una vergogna. Un ciuffo ribelle che invece rifiutava quella vergogna e guardava fuori da quella gabbia di cui l’autorità politica e religiosa dell’Iran possiede le chiavi. Il 13 settembre, per questo motivo, Mahsa è stata arrestata dalla “Polizia Morale” iraniana, la famigerata Gasht-e Ershad, chiamata anche “pattuglia della morte”. Ed è in una stazione di polizia che Mahsa è deceduta, dopo tre giorni di percosse e violenze. La sua morte, il suo assassinio, è stata la goccia che ha rotto gli argini di un fiume che oggi straripa nelle piazze di tutto il Paese, dapprima nella provincia del Kurdistan iraniano e poi a Teheran, a Isfahan e nelle città principali dell’Iran. È un fiume in piena, gonfio di rabbia e di dolore, di coraggio, dove al grido “zan, zendeghi, azadi” (donne, vita, libertà) migliaia di donne sfidano il regime e la sua guida suprema Ali Khamenei.

Protestano da settimane, senza indossare il velo, in quelle che sono le manifestazioni più imponenti dalla rivoluzione del 1979, contro un regime che viola sistematicamente i diritti umani e la libertà di espressione e che, nei confronti delle donne, lo fa proteggendosi con le sue leggi. La protesta è cresciuta un giorno alla volta, si è propagata alle università con gli studenti che scendono in piazza accanto alle donne e la risposta del regime è la sola che, da sempre, ogni regime conosce: la repressione. Le vittime sono centinaia, così come le persone scomparse e di cui non si hanno notizie. Violenze e repressione non hanno fermato le donne dell’Iran che, in prima fila nelle proteste, sfidano il potere e il “Consiglio dei Guardiani della Costituzione” con un gesto simbolico ma di una forza straordinaria all’interno del contesto religioso-politico: il taglio dei capelli in pubblico e il velo strappato. La polizia spara, uccide, arresta e sequestra, eppure le donne iraniane e curde non si fermano, vanno avanti consapevoli del rischio e del prezzo da pagare perché “fermarsi e rinunciare ora vorrebbe dire maggiore oppressione e quindi maggiore sofferenza, più morte, più bugie”.

C’è un filo conduttore nella storia delle donne di tutto il mondo, un filo rosso che non si spezza di fronte a nessuna paura. Le immagini delle donne che oggi sfidano il potere in Iran stringono lo stesso filo che la storia del ‘900 ha passato di mano in mano: dalle Madri alle nonne, Le Abuelas di Plaza de Mayo, che sfidavano il regime fascista dei generali argentini nelle piazze, guardando negli occhi i militari armati che le circondavano: “Dónde están los niños desaparecidos?”, chiedevano le donne argentine e niente e nessuno poteva fermarle. Qualcuno pensava che fosse una lotta inutile e disperata, ma loro hanno combattuto e vinto quella lotta, unite e armate solo del loro coraggio e della loro dignità. Tanti anni dopo quel filo è stato raccolto dalle donne di Kobane: era l’anno 2014 e anche quella volta era il mese di settembre, l’Isis sventolava la sua bandiera su Kobane, città a nord della Siria. Per le donne la guerra diventò una scelta inevitabile, una necessità: difendere la loro terra e la propria stessa esistenza di donne.

Loro sono state il muro su cui si è schiantato l’Isis, il mondo si accorse di quelle donne che avevano meno di vent’anni o poco più di trenta, si commosse di fronte al loro coraggio e alla loro morte, perché molte di loro sono morte, e quelle che non sono morte sono state poi dimenticate in fretta. In un servizio della BBC una di loro, giovanissima, raccontava che “prima di Kobane la gente non credeva nelle donne. Pensavano che fossimo inutili nella guerra contro Isis. Invece vincendo abbiamo dimostrato che non è così. Le donne lottano e proteggono. Le donne daranno vita ad una nuova generazione a Rojava”. Prima delle Madri di Plaza de Mayo e dopo le donne di Kobane, la storia è un libro ricco di pagine scritte dalle donne: lotte di liberazione e rivoluzioni, lotte per i diritti civili, per il lavoro, per la vita di tutti i giorni. Quasi sempre sono lotte impari, perché qualunque potere e qualunque chiesa ha sempre voluto la donna ai margini della società.

Oggi, in quel libro, si aggiungono le pagine scritte nelle piazze iraniane. Quelle piazze non rappresentano solo la giusta lotta delle donne per la loro libera esistenza, ma segnano anche una rivolta generazionale straordinaria che coinvolge e interessa ogni aspetto della società islamica ma non solo. È una pagina che può essere un punto di non ritorno per il regime iraniano, perché in quelle piazze che si riempiono ci sono soprattutto i giovani, donne e uomini, perfettamente consapevoli che per loro non esiste un futuro. E in questa consapevolezza c’è tutto il fallimento di una società globale, che ha chiuso ogni porta ai suoi figli. Questo vale non solo per l’Iran e per tutti quei Paesi dove l’integralismo religioso scandisce la vita di ogni giorno e soffoca qualsiasi speranza; vale anche per tutto un mondo che dimostra, ogni giorno di più, la propria incapacità nel capire che una società senza eguaglianza e diritti è destinata ad implodere su se stessa, schiacciata dalla sua stessa arroganza.

L’effetto domino con cui le proteste in Iran hanno trovato eco in altre parti dell’Europa e del mondo, sono il segnale che i giovani sono sempre una risorsa capace di liberare idee, solidarietà, cambiamento. È stato così in passato, può e deve essere così oggi e domani. Quella solidarietà che riempie le piazze, in Italia e in Europa, corre sulla rete e la attraversa proprio nel momento in cui i social sono bloccati in Iran “fino alla fine delle proteste”, come ha stabilito il ministro dell’Interno, Ahmad Vahidi. Quelle piazze e il taglio di una ciocca di capelli, sull’esempio delle donne iraniane, sono un messaggio e un segnale di resistenza e coraggio, di voglia di vivere. È un messaggio profondamente diverso dai segnali di morte che ogni giorno ci arrivano da quel mondo che vorrebbe le donne e i giovani silenziosi e obbedienti, rassegnati ad aspettare un futuro che non esiste. Così non è e non può essere.

Questa società, nella sua quasi totale interezza, rimane ancora schiava di antichi padroni: nazionalismi e integralismi religiosi sono un peso di cui dobbiamo liberarci e che ancora non riusciamo a sradicare. Gli “equilibri politici e sociali”, che da sempre condizionano e impediscono il reale sviluppo della società globale, sono quel muro che non riusciamo ad abbattere. Così, al tempo stesso, non si riesce a superare nemmeno quella linea di confine rappresentata dall’integralismo religioso che sempre di più divide l’umanità. Le donne e le giovani generazioni iraniane chiedono quel cambiamento radicale che non può più attendere, e quel cambiamento può diventare una scintilla capace di propagarsi. C’è un aspetto significativo e di grande importanza in questa protesta: il coinvolgimento crescente delle minoranze curde e dei movimenti dichiaratamente femministi.

L’assassinio di Mahsa Amini e le proteste di questi giorni lasceranno un segno profondo, difficile e forse impossibile che il cambiamento richiesto possa avverarsi nell’immediato. Altrettanto difficile pensare ad un mutamento degli assetti di potere. Facile, invece, pensare che chi oggi continua a scendere nelle strade e nelle piazze di Teheran, di Isfahan e di ogni città dell’Iran, pagherà senza dubbio un prezzo durissimo e che il prezzo più alto lo pagheranno sicuramente le donne che guidano la protesta, avanguardie di una ribellione e di una lotta che non può essere che globale. È un prezzo che le donne pagano da sempre per il solo fatto di essere donne, ed è in quel prezzo che si nasconde la vergogna di una società sbagliata e che va cambiata subito, già oggi, perché domani è già troppo tardi.

“Quelle come me regalano sogni, anche a costo di rimanerne prive.
Quelle come me donano l’Anima, perché un’anima da sola è come una goccia d’acqua nel deserto.
Quelle come me tendono la mano ed aiutano a rialzarsi, pur correndo il rischio di cadere a loro volta.
Quelle come me guardano avanti, anche se il cuore rimane sempre qualche passo indietro.
Quelle come me cercano un senso all’esistere e, quando lo trovano,
tentano d’insegnarlo a chi sta solo sopravvivendo…
Quelle come me vorrebbero cambiare, ma il farlo comporterebbe nascere di nuovo.
Quelle come me urlano in silenzio, perché la loro voce non si confonda con le lacrime… “
(Alda Merini).

Maurizio Anelli -ilmegafono.org