Quella di Acca Larenzia non è una commemorazione, ma una macabra sfilata politica. Non è nemmeno una novità per questo Paese, perché di momenti e gesti simili, altrettanto tetri, ne abbiamo visti in molti luoghi, a Roma come a Milano, a Predappio, e così via. Ad Acca Larenzia, quella fila di soldatini scuri con il braccio teso si era già radunata in passato. È un appuntamento al quale i fascisti tengono tanto, uno dei totem dell’estrema destra. Più che per ricordare tre ragazzi, militanti dell’Msi, uccisi in quella via della Capitale nel 1978, è un momento per ricordare al Paese che i fascisti esistono ancora, con la loro simbologia, i loro slogan e la loro necessità di fare branco per sentirsi forti. Qualcuno, dalla più prestigiosa seggiola del Senato della Repubblica, sostiene che commemorare i defunti sia cosa ben diversa dal commettere apologia di fascismo. E aggiunge che il saluto romano non è considerato reato.

Dimentica, il presidente del Senato (l’uomo che ha sempre difeso il saluto con il braccio teso e che conserva a casa una statuetta e altri oggetti con l’effige del Duce), che il reato di apologia del fascismo, di cui i gesti e le dimostrazioni sono parte, esiste ed è disciplinato dall’ordinamento giuridico, nonostante le sentenze contrastanti sulle quali la Cassazione dovrà presto mettere un punto definitivo. E soprattutto, prima ancora delle sentenze, è un gesto che va contro la Costituzione sulla quale si basa la nostra Repubblica. E la Costituzione va rispettata, perfino in un Paese come il nostro, nel quale la memoria è debole e al suo esercizio attivo si preferiscono le commemorazioni, spesso lontanissime dal significato reale che dovrebbero avere. Le immagini di Acca Larenzia fanno impressione, ma forse oggi hanno toccato qualche sensibilità in più rispetto al passato, per una ragione precisa, ossia per la corrispondenza ideologica con il governo in carica, che da quei gesti, da quei simboli, complessivamente, non riesce a prendere le distanze.

Da quei gruppi di estrema destra che si muovono nei sotterranei dello Stato, infatti, un pezzo della destra di governo non riesce ancora ad allontanarsi del tutto. Sarò anche vero quello che dice La Russa, quando sostiene che Fratelli d’Italia non c’entri nulla con l’organizzazione di questo tipo di manifestazioni, ma la comunanza di radici ideologiche, i rapporti certificati da note inchieste, la coerenza di pensiero su temi importanti, le clamorose e nostalgiche dichiarazioni pubbliche, spesso sui social, di molti dirigenti di FdI sgretolano qualsiasi confine tra i ragazzi con le braccia tese e il gruppo che oggi guida il partito di destra al governo. Su Fratelli d’Italia pesano ancora troppe ombre ed è possibile annusare ancora troppi legami tra molti suoi esponenti e la sottocultura fascista. Le opposizioni oggi chiedono una presa di distanze netta da parte quantomeno di Giorgia Meloni, ma a pensarci bene, a cosa servirebbe? Avrebbe forse un valore simbolico, ma risulterebbe indubbiamente sterile.

Perché, Acca Larenzia o meno, quella parte di destra che, dopo la svolta di Fiuggi, aveva fatto indossare alla sua classe dirigente la veste nuova del cambiamento, di una dimensione più moderata ed europea, oggi appare tristemente involuta. Gli stessi protagonisti della stagione di Alleanza Nazionale (Meloni inclusa), oggi invecchiati, sembrano aver definitivamente virato verso il ritorno alle origini, non solo nelle visioni ma anche nei toni. Insomma, fascisti erano e fascisti, alla fine, sono tornati ad essere. Il progetto di formare in questi anni una nuova leva, cresciuta secondo i crismi di una destra europea, è fallito miseramente. L’ala più moderata è finita sotto i colpi di una destra sovranista ed antieuropeista, la cui identità si è mescolata con le peggiori decadenze populiste. Alla fine, così, si è tornati indietro, cercando riparo nei capisaldi di una ideologia anacronistica, sconfitta e incapace di futuro, che ha semplicemente saputo sfruttare l’incertezza e gli scandali della destra liberale e il declino e l’ignavia del riformismo progressista europeo, per conquistare un potere usa e getta, pronto a consumare tutto e subito, con arroganza, ferocia, indifferenza. E senza idee di qualità, senza contenuti nuovi.

È accaduto e accade anche in Italia, dove la versione di Paese che emerge dalle azioni e dal pensiero di Giorgia Meloni e dei suoi sodali è quella di una nazione a marcia indietro, sia nella concezione del ruolo della donna e della sua autodeterminazione sia in quella dell’evoluzione del concetto di famiglia. Una nazione dal volto sempre più feroce e cupo in tema di diritti umani, apertamente discriminatoria, indifferente e incapace in materia di welfare e di lavoro, ma soprattutto ingabbiata in una gestione autoritaria del potere, con l’assalto alla libertà di stampa, l’occupazione di ogni spazio e il pugno duro pronto a fermare qualsiasi forma di dissenso scomodo. In questi giorni, viene giustamente fatto rilevare come i militanti di Acca Larenzia abbiano potuto compiere, indisturbati, gesti che violano la legge dello Stato, mentre alla Scala di Milano, un uomo, solo per aver urlato “Viva l’Italia antifascista”, concetto contenuto nella nostra Costituzione, sia stato addirittura identificato dalle forze di polizia.

Una contraddizione inaccettabile, sulla quale il ministro dell’Interno, quello della guerra spietata e disumana ai migranti, glissa, limitandosi a sostenere che vietare è controproducente e che è più utile osservare. Un concetto che, evidentemente, il ministro e, a cascata, i prefetti, non contemplano quando si tratta di manifestazioni per i diritti o per contestare la crisi climatica. D’altra parte, è risaputo, ai fascisti in questo Paese non si nega mai nulla. Ed è questo il punto. Perché al di là del silenzio o delle minimizzazioni su Acca Larenzia, al di là del desiderio delle opposizioni di ricevere una presa di distanze da Meloni e dal suo governo, ciò che andrebbe sottolineato è il clima che serpeggia da tempo dentro e fuori dalle istituzioni. Tutto ciò va al di là del pericolo fascista e tocca il tessuto connettivo della nostra democrazia, vale a dire la sensazione che in questo momento c’è una parte di Italia alla quale tutto è consentito, in quanto funzionale a un potere che sta provando a demolire dei pilastri portanti, in luogo dei quali restaurare antiche e funeste sovrastrutture.

Il vero pericolo non è scoprire che Meloni e i suoi sono nostalgici e non hanno mai tagliato il cordone ombelicale con quel periodo rispetto al quale si sono sempre lasciati definire eredi, il vero pericolo è la mancata reazione degli italiani, precipitati in una sorta di assuefazione, che induce a banalizzare e a smarrire il senso della realtà. E ciò vale anche per altro, vale per le misure economiche, per le politiche sociali, per le scelte di politica estera. Si accetta tendenzialmente qualsiasi spiegazione oppure ci si chiude in una lamentela improduttiva e privata che ha il sapore di una latente rassegnazione. La debolezza perdurante delle formazioni politiche democratiche fa il resto, perché mancano luoghi di confronto, punti di riferimento, oppure ci sono ma non riescono più a coinvolgere, educare, spingere alla partecipazione. Rimangono solo alcune forze sociali, qualche sindacato, i movimenti ambientalisti, ma sono isolati, non riescono a fare presa sulla coscienza collettiva, a stimolare un cambiamento culturale.

Davanti a tutto questo, allora, i saluti romani di qualche centinaio di imbecilli colpiscono più di quanto non avvenisse prima, quando si aveva la certezza che quel triste carnevale ideologico non avesse spazio e non trovasse sponde politiche in alto. Oggi, osservando quanto sta avvenendo in Italia, con la sottocultura reazionaria che si sta diffondendo, le leggi e le proposte delle forze di governo, le convergenze pericolose e le modalità di gestione spregiudicata del potere, questa certezza non c’è più. Ed è su questo che bisogna interrogarsi e trovare risposte. Politiche e culturali. Prima che sia troppo tardi.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org