Poco più di un mese fa, lo scorso 5 marzo, si è celebrato il venticinquesimo “compleanno” di un importantissimo strumento di lotta alle mafie: la legge 109 del 1996, inerente la possibilità di usare i beni confiscati alle mafie per attività con finalità di carattere sociale ed istituzionale. Suo ispiratore, idealmente, fu il politico e sindacalista Pio La Torre, che per primo sostenne la necessità di adottare misure di sequestro e confisca dei beni dei clan. Il 30 aprile ricorre il 39esimo anniversario dell’assassinio dell’ex dirigente comunista, ucciso, per mano mafiosa, il 30 aprile del 1982. Venticinque anni per una legge non sono molti: considerando l’età media del nostro ordinamento, potremmo definire la legge 109/96 tutto sommato ancora giovane e, di sicuro, il più valido strumento nelle mani della giustizia per contrastare la criminalità organizzata sul piano socio-economico.

Venticinque anni di riutilizzo dei beni confiscati equivalgono infatti a un lustro di ingenti danni economici alle mafie e, contestualmente, di poderoso segnale sociale. Per un boss, infatti, dover assistere all’espletamento di attività sociali, per lo più finalizzate all’educazione alla legalità, in ville o case o aziende o terreni che gli erano appartenuti è un innegabile smacco, un danno anche di immagine, ed è noto quanto gli “uomini di onore” tengano alla propria immagine di criminali, ad apparire forti, inviolabili. In occasione del venticinquennale dall’approvazione della legge, il centro buddhista Muni Gyana ha piantato, sui terreni di Terra Franca confiscati alla mafia, un limone, dedicandolo a Pio La Torre. L’anniversario dalla promulgazione della legge è stato inoltre celebrato dall’associazione antimafia Libera con la presentazione del dossier “Fattiperbene”, una sorta di censimento sulla situazione dei beni confiscati in Italia.

Dal dossier emerge che, purtroppo, circa la metà dei beni confiscati è ancora in attesa di riutilizzo e che mediamente, tra il superamento delle criticità legate al singolo bene e le varie, inevitabili, verifiche burocratiche, passano circa 10 anni tra la confisca e il riutilizzo del bene. “A venticinque anni dall’approvazione della Legge 109 del 1996 – scrive l’associazione Libera – è certamente possibile fare un bilancio sul riutilizzo sociale dei beni confiscati in Italia, evidenziando innanzitutto le positività di un percorso e di tante esperienze nate grazie alla presenza di beni – immobili, mobili e aziendali – sottratti alla disponibilità delle mafie, delle varie forme di criminalità economica e finanziaria (dal riciclaggio all’usura, dal caporalato alle ecomafie) e di corruzione. Beni che sono diventati opportunità di impegno responsabile per il bene comune”. I responsabili di Libera hanno aggiunto che, chiaramente, un più snello e veloce processo di conferimento dei beni sequestrati a realtà meritevoli ne amplificherebbe notevolmente l’efficacia.

Un’efficacia che emerge comunque dalle numerose realtà affermatesi su tutto il territorio nazionale e che, lo scorso dicembre, ha portato a un importantissimo riconoscimento a livello europeo. Dal 19 dicembre 2020 è infatti entrato in vigore un regolamento dell’Unione Europea del 2018, concernente il riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e confisca. Essendo i regolamenti comunitari per loro natura obbligatori e direttamente applicabili in tutti gli Stati membri, quello di dicembre diventa, senza dubbio, un importantissimo strumento di contrasto al riciclaggio economico dei mafiosi in ambito transnazionale. Un tale riconoscimento stride, non poco, con le accuse di incostituzionalità che, sempre più di frequente, vengono rivolte all’istituto del riutilizzo dei beni confiscati, proprio come avviene per l’ergastolo ostativo di cui ci siamo recentemente occupati (qui). Avverso tali critiche si è recentemente espresso Luca Tescaroli, procuratore aggiunto di Firenze, che ha ribadito l’importanza della legge 109/96, definendola presidio irrinunciabile nella lotta alla criminalità organizzata, nata dal sangue e dal sacrificio di esponenti delle istituzioni.

“Si registra – ha dichiarato Tescaroli -una deriva iper garantista in seno alla magistratura, sempre più proiettata ad ancorare le manifestazioni di pericolosità sociale alle sentenze di condanna e alle contestazioni mosse nei procedimenti penali. Va ricordato  che i vertici di cosa nostra con le stragi del biennio 1992-94 ricattarono lo Stato per ottenere, fra l’altro, l’eliminazione di quegli strumenti”. E che i mafiosi “continuano a dedicarsi con l’aiuto di professionisti a occultare i loro beni e la loro origine ed affermano che non esiste cosa peggiore della confisca dei beni”. Tescaroli ha concluso sottolineando che il particolare contesto in cui viviamo, il collasso economico provocato dalla pandemia, è un ideale terreno fertile per gli affari del crimine organizzato e che ora più che mai lo strumento della confisca dei beni e del loro riutilizzo è importante e merita tutela. Macchiare con il sospetto di incostituzionalità gli unici strumenti validi per il contrasto alla criminalità organizzata equivale a depotenziarli. Sembra quasi si stia percorrendo una parabola discendente nel contrasto alle mafie, un tacito e lento percorso che porta alla resa.

Anna Serrapelle -ilmegafono.org