Tra pochi giorni sarà Natale e ciascuno lo vivrà come potrà. La gran parte delle persone lo trascorrerà in famiglia, altri al lavoro, per qualcuno sarà un giorno qualunque, l’ennesimo da far passare, per altri ancora sarà la notte nella quale le solitudini rimbombano. L’Italia arriva a questa fine del 2023 con tanta retorica e poca sostanza. La manovra del governo Meloni è l’ennesimo colpo di scure sullo stato sociale e, d’altra parte, era difficile attendersi qualcosa di diverso. Alla fine, gli ultimi saranno sempre gli ultimi, anche in questa ipocrita parentesi festiva che molti rappresentanti istituzionali riempiranno con le solite frasi, i post di auguri e le consuete auto-celebrazioni. Il non senso delle scelte compiute da questo esecutivo in occasione della recente manovra, si riflette anche nell’indecente spreco di risorse destinate ad accarezzare le allucinazioni e gli interessi politici di questo o quel leader di partito.

Il 2024 si preannuncia, dunque, ricco di tensioni sociali e, probabilmente, non sarà un anno facile per un governo che ottusamente trasforma in vendetta la propria azione politica, ignorando i problemi reali e scaricando sui cittadini il peso di una crisi che non lascia aperti spiragli. Un momento storico complesso che l’Italia si trova ad affrontare sotto la guida di una classe dirigente misera, votata alla vuota bagarre elettorale, alle ripicche di parte, all’affermazione della propria idea privata di nazione in contrapposizione all’auspicabile supremazia dell’interesse collettivo. Un Paese con un governo e una premier che non assumono alcuna iniziativa in tema di contrasto alle mafie, ma preferiscono condurre la propria personale guerra contro un giornalista, reo addirittura di aver venduto libri, poi divenuti bestseller, che denunciavano il potere mafioso.

Un Paese nel quale risiede un presidente della Camera, nostalgico di un regime polverizzato dalla democrazia che la sua stessa carica rappresenta, il quale ritiene che il Capo dello Stato, figura fondamentale di garanzia ed equilibrio, abbia troppi poteri. Quelli che lo stesso presidente della Camera vorrebbe mettere nelle mani di un (o una) premier, così da indebolire il fondamentale contrappeso del Quirinale e il potere del Parlamento, ormai sempre più ridotto a un mero ratificatore delle decisioni dell’esecutivo. I riferimenti alla Costituzione, ossia quella Carta illuminata e illuminante nata proprio da chi aveva messo fine all’oppressione fascista, appaiono perfino grotteschi sulle labbra di chi non perde occasione per andare oltre lo steccato del buon senso. Buon senso che manca (ma è cosa nota) anche al ministro Matteo Salvini e ai presidenti di Regione di Sicilia e Calabria, così come a tutti coloro i quali continuano a sostenere un’opera esclusivamente propagandistica, inutile e irrealizzabile come il ponte sullo Stretto di Messina.

Nella manovra di fine anno, infatti, sono stati previsti ben 9 miliardi di euro per questa grande opera che da decenni vive solo nelle fantasie del ministro di turno e nelle tasche di chi guadagna da tale mastodontico affare finanziario costato già molto allo Stato e senza peraltro vedere mai alcun reale spiraglio di fattibilità. Dopo aver deposto le ruspe, il leader della Lega, ha deciso oggi di giocare con il ponte, in ciò sostenuto dai due presidenti Schifani e Occhiuto, entrambi di Forza Italia, nostalgici delle avveniristiche fandonie del fu Silvio Berlusconi. La manovra ha confermato i costi del ponte, con 2,3 miliardi di euro attinti dal Fondo sviluppo e coesione per la programmazione 2021-2027. L’autorizzazione di spesa per finanziare la costruzione del Ponte è pari a 9,312 miliardi, ai quali si aggiungono, inoltre, anche 1,6 miliardi, sempre provenienti dal Fondo sviluppo e coesione, nello specifico dalle risorse del fondo destinate a Calabria e Sicilia. In poche parole, Calabria e Sicilia destineranno una cifra enorme a un’opera inutile e lontana dalle priorità che le due regioni hanno.

Poco importa se esse sono agli ultimi posti dal punto di vista infrastrutturale, se sono minacciate da un rischio idrogeologico elevatissimo, se non hanno collegamenti adeguati fra le diverse città e aree del loro territorio. Poco importa se, ad esempio, in Sicilia la parte orientale e occidentale sono praticamente separate e reciprocamente raggiungibili solo con ore e ore di viaggio, tra infrastrutture ferroviarie antiquate e reti stradali e autostradali colme di interruzioni e deviazioni. Importa ancor meno che nella terra di Colapesce ogni tanto si inaugurino, con tanto di clamore ed entusiasmo, tratti minuscoli di autostrada il cui progetto esiste da cinque decenni. I soldi per le infrastrutture, per la sanità, per i collegamenti, ossia per problemi reali, tangibili, non si trovano mai, ma per un’opera che sarebbe una pericolosa e traballante cattedrale nel deserto, con un impatto ambientale peraltro non indifferente, sì. E sono soldi che, chissà, magari faranno lo stesso giro del fumo che poi, una volta svanito, lascerà solo l’alone ingiallito dell’ennesimo nulla.

Ma d’altra parte, cosa attendersi da Salvini, Schifani, Occhiuto? E cosa da Meloni, Lollobrigida o La Russa? Il problema è sempre quello: abbiamo una classe dirigente di livello infimo, alla quale corrisponde un’opposizione, all’interno del Paese, tristemente fragile. E non ci si riferisce solo alla politica, ma anche a quella parte di cittadinanza che accetta tutto e che ha rinunciato a lottare, a farsi sentire. La cosa che più preoccupa, alla vigilia di un nuovo anno, è proprio la mancanza di una resistenza diffusa, un fronte compatto che riempia le piazze sfidando il governo. Ci prova qualche sindacato, che però, per colpe anche proprie, non riesce più a coinvolgere, a trascinare, a incarnare il sentimento di sofferenza di chi subisce le conseguenze del cattivo gioco della politica.

La voce dissonante che rimane flebile nel Paese, inoltre, nasconde altre voci delle quali non giunge nemmeno un bisbiglio. Sono quelle degli ultimi, coloro che non hanno rappresentanza, che vivono una vita che finisce troppo spesso rinchiusa dentro un vuoto di diritto, ai margini di una continua sopravvivenza. Una vita che rimane tragicamente uguale, a Natale come in qualsiasi altro giorno. A quelle vite questo governo ha soltanto tolto, senza concedere nulla, durissimo con i deboli, in nome della propaganda e della campagna elettorale permanente. A quelle vite il governo ha mostrato gli artigli affilati e gli occhi aggrottati. A quelle vite, chi mette la parola Dio al primo posto nel proprio motto fasullo che si completa di patria e famiglia, riserva soltanto una crudele indifferenza. Eppure tra quelle vite che il governo ripudia si incarna la storia, laica o meno, di un bambino che nasceva dentro una mangiatoia. In povertà e con l’ostilità del potere pronta a scagliarvisi contro. Il Natale, a quanto pare, si ripete da secoli.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org