Ci sono nazioni che vanno avanti, altre che invece restano ferme o, peggio ancora, tornano indietro. Non soltanto dal punto di vista economico, ma soprattutto da quello culturale. In Italia vi sono settori in cui tale ritardo è evidente. Non ci si riferisce al popolo, né agli intellettuali o agli studiosi, bensì a coloro che, quotidianamente, invadono gli spazi in cui si forma l’opinione pubblica di questo Paese. Si legge sempre meno, ci sono ampie fasce di popolazione che affidano la propria educazione culturale ai mezzi di comunicazione più diffusi, in primis la tv, capace di produrre in tempo reale un numero enorme di informazioni, con sempre meno spazio per l’approfondimento di qualità. Nella frenesia quotidiana, la gente consuma con rapida superficialità una mole di informazioni che poi non ha il tempo, la possibilità o anche la voglia di approfondire e verificare. Anche i giornali, che pure permettono un’analisi più profonda e completa delle questioni trattate, vengono letti spesso in maniera distratta e superficiale. Ed allora, davanti a tale scenario, diventano fondamentali i criteri dell’imparzialità, della completezza dell’informazione e quello della correttezza del linguaggio.

Si parla spesso dei primi due criteri, che, in questa Italia segnata dall’evidente restringimento della libertà di stampa e di pensiero, sono difficili da riscontrare. Dell’ultimo, invece, si parla poco, nonostante sia uno dei principi fondamentali non solo dell’informazione ma anche e soprattutto della politica, che dei media si serve costantemente. Nel nostro Paese, a differenza di nazioni come Usa o Gran Bretagna, il principio del politically correct (politicamente corretto) non riesce a trovare solide fondamenta. Il linguaggio utilizzato in contesti pubblici è sbrigativo, diretto, crudo, senza che spesso ci si renda conto dell’inadeguatezza e scorrettezza di certi termini o  accostamenti. Mondo politico e mass media, nonostante qualche tentativo più o meno ufficiale di regolamentazione, continuano ad andare fuori strada. Se pensiamo al modo in cui viene trattata la questione immigrazione, ci rendiamo conto di quante scorrettezze vengono compiute, attraverso l’utilizzo improprio delle parole.

Il termine “clandestino”, ad esempio, viene utilizzato con riferimento ai migranti che sbarcano sulle nostre coste, senza che nessuno si preoccupi di pensare che, tra i naufraghi, ci può essere anche chi ha diritto all’asilo e fugge dalla guerra o dalla persecuzione e, pertanto, clandestino non è, dal momento che è tutelato dalle Convenzioni internazionali. O ancora, l’etichetta “extracomunitario” viene ormai associata all’immigrato che proviene dai paesi più poveri, mentre mai si associa agli statunitensi, ai giapponesi, agli svizzeri, che pure sono anch’essi extracomunitari. E questi sono errori più piccoli, meno gravi di quelli che si fanno quando si collega, ad esempio, l’Islam al fondamentalismo o quando si parla di in senso dispregiativo di “negri”, come fanno molti esponenti del  mondo leghista. Per non parlare poi di alcuni fenomeni da baraccone del giornalismo sportivo, che della correttezza di linguaggio non si preoccupano minimamente.

È il caso di Maurizio Pistocchi, professione moviolista, il quale, commentando l’episodio di una simulazione commessa da un calciatore serbo, con estrema tranquillità ha legato il tentativo furbesco di ingannare l’arbitro alla nazionalità del calciatore. Ultimamente poi abbiamo assistito al linguaggio da caserma del premier, che con il sorriso aperto si lascia  spesso andare a barzellette e battute squallide sulle donne, sugli ebrei, sugli omosessuali. E poi ci sono quelle parole della cui inadeguatezza spesso non ci si rende davvero conto. Usare la frase “staccare la spina” è un errore. Lo ha fatto Bersani, lo hanno seguito tutti. Per giorni abbiamo ascoltato ripetere ossessivamente questa frase, che rende l’idea della necessità di porre fine ad un governo ormai alla frutta, ma che al contempo richiama alla mente situazioni private e personali drammatiche, difficili.

Quando ho sentito giornalisti, leader politici, opinionisti, politologi evocare spasmodicamente l’immagine di un soggetto in coma a cui, per le sue condizioni disperate, bisogna decidere se staccare o meno la spina dei macchinari che lo tengono ancora in vita, mi è venuto in mente cosa potessero provare i familiari di Piergiorgio Welby, di Eluana Englaro, di Luca Coscioni e di tutti coloro che hanno vissuto e vivono una situazione del genere. E mi sono chiesto in quanti avessero provato il mio stesso fastidio per quella continua evocazione, spesso accompagnata da sorrisi o dagli strepiti che caratterizzano i soliti dibattiti tra esponenti delle varie fazioni. Può essere che nessuno se ne sia accorto? Può essere che nessuno abbia pensato che per dire le cose, in questo Paese, non si debba per forza ferire la sensibilità degli esseri umani? Perché, ad esempio, continuiamo (tutti) a cadere nell’errore di parlare di cecità o sordità in maniera negativa,  come sinonimo di ottusità?

La risposta probabilmente sta nell’arretratezza culturale italiana su certi temi e in una scarsa concezione dell’etica, alimentata dall’assenza di codici di regolamentazione efficaci e da un decadimento del livello della classe dirigente, la quale, per prima, fornisce all’opinione pubblica immagini, linguaggi e comportamenti indecorosi. Abbiamo ormai fatto l’abitudine ad ascoltare e vedere personaggi che occupano ruoli istituzionali pronunciare frasi o fare gesti che, in passato, appartenevano al loro privato, che veniva tenuto nascosto. Oggi lo sdoganamento del confine pubblico-privato fa sì che il mondo politico e il dibattito che lo attraversa abbiano un tenore da bar dello sport o da mercato del pesce. E allora, in tali condizioni, come sperare nel rispetto del “politicamente corretto”? Basterebbe un codice, nell’Italia che non rispetta nemmeno i diritti fondamentali dell’uomo? Probabilmente no, ma ci vuole una rottura, un cambiamento culturale, anche a partire da un testo legislativo o deontologico efficace. Non sarebbe risolutivo, ma sarebbe un passo avanti e quantomeno darebbe il segno di una piccola presa di coscienza.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org