L’Europa, in questo momento, si trova invischiata nell’orrore, nuovamente sconvolta dai racconti sanguinosi di un fronte di guerra. Dopo il nazifascismo, dopo il tremendo conflitto in Bosnia, il Vecchio Continente riascolta l’eco spaventosa e disumana della violenza, delle fosse comuni, delle esecuzioni sommarie, dei bombardamenti. L’Europa ha gli occhi atterriti e fissi sul carnaio di una democrazia sgretolata e di un contesto geopolitico esplosivo e pericoloso, rispetto al quale anch’essa ha profonde responsabilità. Sarebbe logico andare alla radice dell’Unione, agli errori, alla fisionomia di una istituzione che ha messo le logiche finanziarie dell’area più centrale davanti ai bisogni economici, politici, di pacificazione e risanamento dei conflitti delle aree più periferiche. O andare ad analizzare gli errori politici gravissimi che hanno portato a rendere ancora più grave questa situazione. Non è questa la sede, ma l’attuale tensione (che va ben oltre la guerra in Ucraina) ha radici molto più profonde e complesse delle etichette e dei reciproci giochi di propaganda.

L’orrore e la violenza che come sempre sono feroci nel loro banale ripetersi, l’instancabile polarizzazione tra chi nega e chi è costretto a difendere la verità, le dinamiche che coinvolgono le varie potenze e le mosse attuate nello scacchiere bellico: tutto questo non rappresenta una novità. È la guerra, con le sue conseguenze figlie della brutalità delle armi, degli uomini e della lotta contro un nemico. Ma in questo scenario non trova alcuna conferma l’idea che quello di Putin sia un attacco all’Occidente e al suo attuale assetto, come qualcuno ha sostenuto in queste settimane. In realtà sembra più la fase evidente e dolorosa di un Occidente che si accartoccia su se stesso.

Se spogliassimo questo conflitto da tutte le inevitabili risposte emotive che il dolore della gente comune provoca in noi, forse riusciremmo a vederlo meglio il declino di un modello che non è solo russo o ucraino o europeo, ma è mondiale. Da questo conflitto qualcuno può trarre ragionamenti sulla crudeltà di Putin, sull’autoritarismo, sui presunti crimini di guerra, sulla ingiustificabile aggressione nei confronti della nazione ucraina, sull’assurdità di usare le armi, sull’ignobile prezzo pagato dai civili, dalle donne, dai bambini. Ossia tutto quello che è scontato tirar fuori da una guerra. A freddo, però, utilizzando la lente della storia attuale e cercando di cogliere quale parte della guerra non trova mai le prime pagine, si può rintracciare altro, si può guardare in faccia il modello occidentale, se consentiamo di inserire, almeno geopoliticamente, la Russia, l’Ucraina, la Bielorussia, ad esempio, nel quadro dell’Occidente o comunque dell’Europa, intesa come continente.

Un modello basato sullo schiacciamento degli ultimi, sulla discriminazione, sul peso politico che si assegna alla sofferenza umana e alla indifferenza per essa. Così, come riportano alcuni organi di informazione (si segnala in particolare un articolo di Lara Aurelie Kopp Isaia su Meltingpot.org), dentro l’orrore di questa guerra risalta quello che è un tratto distintivo di questo modello, che accomuna tutte le parti che gravitano attorno a questo conflitto, dai russi agli ucraini, dai polacchi agli italiani, agli americani: il razzismo. La discriminazione che non risparmia i soliti, quelli che vengono puniti sempre per il colore della loro pelle, per la provenienza o per un modello di vita e di società che non viene accettato. Neri, migranti, rom.

Nella retorica dell’eroismo della nazione ucraina, del suo presidente, del suo esercito, nella celebrazione dell’accoglienza da parte di tanti paesi europei (dalla Polonia all’Italia), si disperdono i vizi e le ipocrisie, le meschine abitudini di chi, pure dentro una guerra, non riesce a rinunciare al disprezzo verso colui che è stato dipinto come l’altro, come l’elemento scomodo, il diverso da sacrificare in nome dell’egoismo che impera in Europa e nelle nazioni limitrofe all’UE da molti anni. I racconti di chi, migrante in Ucraina o rom o residente ma di origine straniera, viene trattenuto al confine, lasciato al freddo e senza alcuna tutela o cura, o viene fatto scendere dai mezzi pubblici o viene addirittura escluso dalla possibilità di salire su un autobus per scappare e salvarsi dalle violenze del conflitto. Per non parlare di chi viene costretto a restare e combattere. L’Ucraina è anche questa, Zelensky lo sa e lo nasconde con la sua campagna di comunicazione, celando la faccia buia del suo Paese dietro l’orrore spaventoso e inaccettabile del nemico russo.

Ma questa è anche la Polonia, che accoglie gli ucraini bianchi e lascia i migranti dietro i confini, con il solito trattamento di violenza e angherie. Il nazionalismo populista che pullula in Ucraina, Polonia, Romania, Ungheria, ecc., scompone e sminuzza il concetto di solidarietà. Lo riduce in briciole, lo utilizza a proprio piacimento, esattamente come avviene in Italia, dove la nuova dicotomia è “profughi veri/profughi falsi”, declinazione dell’altra dicotomia “guerre vere/ guerre false”. Un modo per giustificare ai propri elettorati di riferimento, ingozzati per anni con il mangime lercio della fasulla teoria dell’invasione, questo improvviso spirito solidale e di apertura. Che porta persino ad attuare meccanismi normativi, italiani ed europei, per garantire a chi scappa dall’Ucraina (o meglio a chi viene lasciato passare) non solo la prima accoglienza, ma anche strumenti necessari alla immediata interazione con il contesto di approdo (scuola e lavoro).

Un sistema che sta funzionando con una certa celerità, a dimostrazione del fatto che, se si vuole, si può accogliere e che la scelta di non farlo anche per gli altri è esclusivamente politica ed è strettamente legata alla razza, all’etnia, alle credenze religiose. In poche parole, è intrisa di razzismo. Non ci sono altre spiegazioni per questo scempio del diritto e per questa spietata selezione della razza che va avanti da prima del conflitto russo-ucraino e che riporta l’Europa indietro di un secolo. E gli USA (si pensi alla frontiera messicana) ancora più indietro.

Eccolo l’Occidente, quello che con un occhio piange lacrime di commossa indignazione, mentre con l’altro sceglie chi non ha il diritto di vivere o di sperare di sopravvivere perché ha un colore della pelle, un accento o un credo politicamente sconvenienti. Eccolo l’Occidente, che nessuno sta realmente attaccando nel suo insieme, ma che piuttosto si sta accartocciando da solo sotto gli stivali pesanti di una storia di ingiustizie e di memorie svanite.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org