Si dice che la pandemia abbia cambiato il mondo, si dice che non sarà più lo stesso, che non saremo più gli stessi. Dopo la prima ondata, circondata dalla speranza che questa prova ci avrebbe cambiato in meglio, possiamo affermare che, con molta probabilità, non sarà affatto così. Anzi. La pandemia lascerà macerie su macerie, non solo il dolore per le tantissime vittime, ma anche una forte lacerazione sociale ed economica. L’attenzione ossessiva sul Covid purtroppo ha nascosto sotto il tappeto molti altri problemi dei quali non ci si occupa abbastanza o non ci si occupa più. La crisi di governo attuale adesso ha spostato il focus sulla politica e su priorità che sono soltanto una parte di quelle reali. Abbiamo sentito parlare di Recovery Plan, abbiamo sentito parlare di alcune categorie in difficoltà, ma ci siamo dimenticati di molte altre.

Con tutto il rispetto, pensare che i problemi economici generati o acuiti da questa pandemia riguardino solo ristorazione, bar e turismo, mostra come siamo lontani dalla realtà. Ci sono intere categorie di lavoratori che hanno subito altrettanto o persino di più, senza peraltro trovare alcuna voce o spazio nella narrazione pubblica. Il problema di fondo è che è mancata la visione complessiva del Paese. Ed è mancata da parte di tutti. Del governo, delle forze di opposizione, dei ribelli di maggioranza, dei sindacati, delle regioni, degli osservatori. Semplicemente perché in questo Paese, dopo la prima fase emergenziale, affrontata con una certa prontezza e in modo responsabile, ci si è un po’ smarriti, precipitando nel consueto caos delle diatribe politiche e delle rivendicazioni di parte. Come spesso accade, quando si doveva andare oltre la contingenza e programmare, prepararsi, prevenire, decidere in maniera chiara, elaborare una visione per il futuro immediati si è finiti nella palude.

Come sempre l’Italia dimostra di avere una certa abilità, quando si tratta di resistere e di agire davanti a una emergenza, di metterci una pezza, di accomodare una situazione, di combattere quando si sta consumando una tragedia. Ma di essere molto meno abile quando si tratta di costruire, immaginare, agire. Si è parlato di ristori e, dopo la prima fase che ha portato al riconoscimento di contributi a una buona parte dei lavoratori, sono stati fatti altri decreti che però hanno lasciato fuori molte fasce di lavoratori che costituiscono una fetta importante del mercato. Giovani, soprattutto, ma non solo. Gente che non appartiene strettamente a una categoria merceologica fra quelle individuate come “in sofferenza”, ma che lavora in quell’indotto, autonomamente, spesso per via della impossibilità di ottenere contratti.

Lavoratori autonomi, liberi professionisti, precari, architetti, giornalisti, lavoratori del digitale, creativi, grafici, consulenti, maestranze dello spettacolo, e così via. Tutte persone che hanno perso clienti e lavoro ma hanno mantenuto invariata la pressione fiscale (se si eccettua qualche possibilità di dilazione), lavoratrici e lavoratori che, dopo i primi tre mesi, non hanno ricevuto alcun aiuto. Ancora peggio è andata a chi, in molte aree del Paese, non ha nemmeno una forma di contratto, non ha alcuna tutela. Lavoratori e lavoratrici che sbarcano il lunario, facendo lavoretti vari o lavori stagionali (idraulici, muratori, badanti, collaboratrici domestiche, braccianti, camerieri, ecc.). Persone, spesso con famiglie, alle quali non solo non è arrivato nulla, ma sono state costrette a non lavorare, a restare a casa, specialmente nei periodi di lockdown totale o di zone rosse, perché non avevano alcuna ragione lavorativa da poter certificare con un contratto o una partita IVA.

Una massa di persone rimasta completamente sola, spesso a covare una rabbia silenziosa, coperta dalla retorica dell’Italia unita e compatta, eroica, ma completamente e crudelmente diseguale. Un’Italia nella quale solo chi si lamenta ottiene e, tra questi, purtroppo, anche i furbi, coloro che hanno evaso o utilizzato manodopera in nero. Così, chi ha prodotto sommerso, sfruttando o non tutelando i lavoratori, ha ricevuto i ristori. Chi quel sommerso lo ha vissuto sulla propria pelle non ha ricevuto alcunché. Per lungo tempo. Lo sfruttamento non è entrato nell’agenda di governo né in quella della politica, se non fosse per quella legge, una sorta di sanatoria sghemba e squilibrata, approvata tra lacrime e polemiche, per venire incontro alle esigenze delle imprese agricole, bisognevoli di manodopera stagionale ma, alla luce dei risultati, non molto disposte, a quanto pare, a riconoscere diritti e a spezzare le catene del caporalato.

Il Covid anzi è divenuto un alibi per nutrire le schiere di ipocriti e di inetti istituzionali che, a qualsiasi livello, soprattutto quello regionale e locale, continuano a lasciare che il caporalato si svolga come sempre nei loro territori. Di questa carneficina di diritti i responsabili sono tanti, non solo il governo nazionale, ma anche le opposizioni (totalmente disinteressate al bene collettivo e più preoccupate di fare campagna elettorale permanente), le associazioni datoriali e una società civile che si è lasciata narcotizzare dalla narrazione univoca e caotica dei media.

L’assenza del tema lavoro, di una visione complessiva e concreta, ampia e non schematizzata, sintonizzata solo sull’onda di chi ha alzato la voce o inscenato proteste, fisserà il prezzo che pagheremo quando la crisi arriverà al suo culmine. Quando il Covid sarà meno aggressivo e l’urgenza sarà scemata. E bisognerà pensare a costruire. Sarà lì, davanti alle macerie sociali ancora fumanti, che forse ci si accorgerà dei danni e si capirà il sacrificio violento al quale sono stati costretti i diritti, l’incalcolabile prezzo scaricato sul dorso dei lavoratori meno tutelati, dei giovani, delle donne, degli ultimi. Quelli che nessuno tutela. Nemmeno chi dovrebbe farlo per mestiere o per vocazione.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org