Dopo 42 anni di detenzione continuativa (e oltre 50 anni totali), la settimana scorsa è morto Raffaele Cutolo, boss di camorra celebre per aver dato vita alla nuova camorra organizzata (NCO) ed essere stato per decenni il punto di riferimento della malavita campana, pur avendo vissuto quasi il 70% della sua vita tra le sbarre. Il decesso è avvenuto all’ospedale maggiore di Parma dove era ricoverato a causa di una polmonite bilaterale, le cui complicazioni sono state fatali. Dopo qualche giorno, la salma è stata trasportata in gran segreto ad Ottaviano (Napoli) dove si è tenuto il funerale (riservato ad appena 12 persone), salvo poi chiudere il cimitero ai visitatori nei giorni successivi. Misure non certo di tutti i giorni, quelle previste dal sindaco della cittadina campana, ma accolte dall’opinione pubblica come assolutamente condivisibili per evitare quello che sarebbe potuto essere uno sgradevole pellegrinaggio. Un accorgimento necessario, considerato che nelle ultime ore in troppi hanno trovato il modo di rendere omaggio, a mezzo social, a quello che è stato un sanguinario assassino.

La figura di Cutolo è certamente una delle più controverse nella storia della malavita organizzata. Il boss, che in carcere chiamavano “o professore” a causa della sua attitudine alla lettura, è stato sicuramente molto amato in una terra che per troppo tempo è stata abbandonata dallo Stato, riuscendo a spacciare il suo sistema criminale, fonte di morte, povertà e diseguaglianze, come un’alternativa allo Stato stesso basata sull’assistenzialismo.

Nel corso degli anni, tante sono state le vittime innocenti di un uomo che è riuscito ad essere intoccabile persino in carcere. Oggi più che mai l’unica cosa giusta da fare è ricordare alcuni dei loro nomi e delle loro storie, testimonianze immortali del male che Raffaele Cutolo ha fatto alla sua terra. Da Mario Viscito, che si vide scaricare addosso un intero caricatore per aver preso le difese di una bambina che era stata investita dal boss con la macchina, a Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, che aveva “osato” perquisirlo personalmente.

Da Marcello Torre, sindaco di Pagani, che si oppose alle infiltrazioni camorristiche nel suo comune in merito alla gestione degli appalti post-sisma del 1980, a Pasquale Cappuccio, politico di Ottaviano che più volte aveva denunciato una gestione fraudolenta dei suddetti appalti anche nel suo comune, prima di ritrovarsi freddato mentre era in macchina con sua moglie. Sono ancora tante le vittime innocenti a cui non si è riuscito sempre a dare un nome durante gli anni delle guerre tra i clan, in cui i morti si contavano a centinaia tra le strade del napoletano.

Nel corso degli anni bui del terrorismo più volte lo Stato è sceso a patti con Cutolo, sia durante il caso Moro sia in occasione del rapimento di Ciro Cirillo, assessore democristiano che era stato responsabile amministrativo della ricostruzione post-sismica. Un esempio lampante di una stagione politica fallimentare che ha dato spazio a un sistema criminale, consentendogli di farsi Stato in determinati territori, volontariamente abbandonati. A tal proposito meritano attenzione e riflessione le parole con cui Roberto Saviano ha concluso il suo commento sulla morte di Cutolo su Corriere.tv: “Guai a credere che le mafie siano l’antistato: le mafie sono una parte dello Stato”. L’unico vero insegnamento che possiamo trarre dal passaggio sulla terra di Raffaele Cutolo.

Vincenzo Verde -ilmegafono.org