L’autunno è la stagione delle piogge, o almeno così dovrebbe essere nel pensiero comune. Se le piogge però si trasformano in fucina di morte, in inferno di fango e detriti, in fiumi che travolgono ogni cosa oltre i loro argini, allora c’è qualcosa che nel pensiero comune non va più bene. Un ingranaggio che s’inceppa troppe volte, trovando ostacoli che spesso coincidono con la miopia delle istituzioni, dei negazionisti, ma anche dei cittadini. Nelle Marche, nel cuore dell’Italia, in quello che geograficamente è il centro del Paese, ma che corrisponde a una periferia ideologica, si è scatenato ancora una volta l’inferno. Le cronache e la storia recente ci hanno abituato a sismi ed eventi geologici, quella a cui abbiamo assistito venerdì è una catastrofe climatica, come sta accadendo troppo spesso. Mentre scrivo è ancora in corso la conta dei dispersi e dei morti, tra cui bambini e minorenni. Una strage, perché non si può parlare di tragedia, se alla base del disastro umano e ambientale le responsabilità devono necessariamente essere ricercate nelle istituzioni, nelle scelte scellerate e nel continuo ed estenuante sfruttamento dei territori.

I fatti sono ormai noti: nella notte tra giovedì 15 e venerdì 16 settembre, alcuni comuni marchigiani sono finiti sott’acqua, mentre, ricordiamolo, la campagna elettorale procedeva a gonfie vele. In quelle ore, infatti, il governatore della Regione Marche, Francesco Acquaroli, era impegnato in una cena con Guido Crosetto. Nessuno aveva lanciato l’allerta maltempo ai comuni che poi sono stati colpiti dal disastro. Soltanto dopo l’alluvione, Acquaroli si sarebbe presentato nella sala operativa della Protezione Civile di Ancona. Il danno, però, era ormai in corso. A poco servono adesso i tentativi di smarcamento dalle responsabilità a opera di funzionari e staff, perché quanto accaduto nelle Marche è frutto di una catena di eventi e scelte che, come già accaduto non troppo tempo fa al ghiacciaio della Marmolada, ci hanno fatto scappare il morto, anzi, i morti.

La procura di Ancona si sta muovendo con un’indagine volta a capire se esistano o meno responsabilità delle istituzioni nella “mancata allerta” alle zone poi colpite. Dalle informazioni disponibili emerge che nella sala operativa della Protezione Civile, dopo le 22, era presente un unico operatore. Quando l’idrometro del fiume Misa ha superato la soglia d’allarme, sono stati poi allertati tutti i comuni. All’esterno, intanto, una donna perdeva contemporaneamente suo marito e suo figlio, famiglie distrutte dal fango, anziani colti nelle proprie case, uomini e donne in fuga dal fango, ragazzi che provavano a mettersi in salvo con i propri genitori, qualcuno invano, come Noemi, appena 17 anni. E poi ci sono i genitori del piccolo Mattia, il bimbo strappato via dalle braccia di sua madre dalla furia dell’acqua. Storie che si intrecciano, un dolore straripante come il fiume che non ha retto il carico.

Di fronte a un quadro a tinte così oscure, il fantasma ormai concreto del cambiamento climatico staziona sul nostro pianeta, ma non sulle coscienze, specialmente se parliamo di politica. I programmi elettorali presentati per le imminenti elezioni del 25 settembre sono ancora scarni di punti legati all’ambiente, le proposte sono troppo poche e limitate soltanto ad alcuni partiti. Non bastano tutti questi episodi negli ultimi mesi, non bastano siccità, cambi di temperature, caldo che macina record su record nel corso degli anni. Non bastano le calamità a restituire la certezza che il cambiamento climatico non è solo roba da fricchettoni e ragazzini in piazza: è un problema che riguarda tutti, è il mostro contro il quale ci troviamo a combattere nel presente. Perché non possiamo più permetterci il lusso di consegnarlo al futuro. Il tempo è scaduto.

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