Il diritto di esistere, il diritto a difendersi. È un principio che si può solo condividere, perché così dovrebbe essere l’idea della vita. Ma deve valere per tutti perché, altrimenti, diventa un “privilegio per pochi”, come diceva un grande uomo come Gino Strada. Oggi non è così, non lo è stato nemmeno ieri. Domani forse… Ma perché quel domani possa arrivare sono tanti i passi da compiere e nessuno sembra volerli fare veramente. Non li vuole fare soprattutto chi, da sempre, costruisce il proprio dominio sugli altri semplicemente privandoli dei loro diritti, ed è la Storia a raccontarlo. Ma chi vuole davvero leggere la Storia e imparare, ammettere, chiedere scusa? Perché la Storia si ha l’obbligo di conoscerla, soprattutto quando racconta di popoli interi cancellati, privati del diritto di esistere. Vale per i Nativi americani, per gli Indios, per i neri africani deportati come schiavi e per quelli che hanno lottato per decenni contro l’apartheid in Sudafrica e in ogni angolo di mondo dominato dall’uomo bianco. Vale per i milioni di ebrei passati nei camini nazisti, per i curdi e gli armeni, per Srebrenica.

Vale per chi ha dovuto combattere contro il colonialismo europeo e non solo. Vale anche per il popolo palestinese. Il diritto di esistere non autorizza ad ignorare decine di Risoluzioni ONU, come lo Stato di Israele ha fatto dal 1973 ad oggi, e non si sposa con il regime di apartheid esercitato da uno Stato contro un altro popolo. Il diritto di esistere non permette di dimenticare il significato della “Nakba” e non cancella l’operazione “Piombo Fuso”, i checkpoint, gli insediamenti dei coloni e le case abbattute con le ruspe (leggi qui). Decenni di politiche israeliane, mai ostacolate seriamente dalla comunità internazionale, hanno contribuito a creare il cocktail esplosivo che nelle ultime settimane è davanti agli occhi di tutti. Una tragedia che ogni giorno diventa sempre più atroce e disumana e che si espande, con il coinvolgimento sempre più concreto di altri paesi e con la concreta prospettiva che l’intero Medio Oriente diventi sempre di più l’ago imprescindibile di una situazione politica globale drammatica.

Quanto silenzio e quanta indifferenza, quanti registi nemmeno occulti dietro alla tragedia, quanta cecità storica e umana nei tanti che oggi non sanno o non vogliono distinguere fra le ragioni e il diritto dei palestinesi e il terrore di Hamas. Certo, oggi Gaza è il perimetro dentro il quale Hamas ha un potere, ma sostenere che Gaza è tutta con Hamas è una vile menzogna. In tanti dimenticano che negli ultimi anni Hamas ha represso duramente ogni dissenso all’interno della Striscia e ancora di più sono coloro che non si interrogano su quali e quante speranze e possibilità siano state negate ai reclusi di quella prigione a cielo aperto. È accaduto troppe volte che ogni critica alla politica dello Stato di Israele fosse giudicata con la lente dell’antisemitismo, così come oggi denunciare la drammatica situazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania viene vista come un appoggio alla politica terroristica di Hamas. È una semplificazione inaccettabile e fuorviante.

La denuncia dell’occupazione israeliana e del regime di apartheid imposto al popolo palestinese non significa negare il diritto all’esistenza di Israele. Distinguere i popoli dalle caste che li governano è un dovere etico e politico a cui non si può e non si deve mai rinunciare. All’interno della società civile israeliana non mancano le critiche e il dissenso verso il governo di Netanyahu, leader politico da sempre contrario ad ogni processo di pace con i palestinesi fin dagli Accordi di Oslo, da lui sempre disprezzati, e alla guida di una coalizione oltranzista alleata con il partito Otzma Yehudit (Potere ebraico) di Itamar Ben Gvir. Questo non può impedire di vedere il pericolo del perimetro del terrore fanatico e fondamentalista in cui Hamas vuole rinchiudere la giusta lotta del popolo palestinese.

Hamas non è un amico del popolo palestinese e di quei due milioni e passa di umanità tenuta prigioniera nella striscia di Gaza. Hamas è un loro nemico, e il risultato ultimo della sua ultima azione disumana e inaccettabile sarà di affondare definitivamente quell’umanità che ancora sopravvive a Gaza, costituita in gran parte da ragazzi che hanno meno di 17/18 anni e sono cresciuti in quella prigione a cielo aperto, ragazzi che non hanno mai avuto nulla e a cui è stato tolto tutto fin dal loro primo giorno di vita. C’è una storia che è cominciata settantacinque anni fa: racconta decenni di umiliazioni e sofferenze, diritti negati, violenza. Racconta di un’occupazione, di insediamenti, di muri alzati e sempre più alti, di checkpoint e di controlli ad ogni passo e ad ogni respiro. Racconta di un popolo lasciato solo dalla comunità internazionale, abbandonato a se stesso e consegnato oggi nelle mani di Hamas. Allora bisognerebbe chiedersi chi c’è dietro Hamas, e quale è stato il terreno che lo ha reso fertile. “Se la gente fosse libera, Hamas perderebbe il suo potere che sta nell’occupazione militare israeliana”. Sono le parole lucide e oneste di Luisa Morgantini, già vicepresidente del Parlamento europeo e una vita dedicata ai diritti negati del popolo palestinese.

Quanta ipocrisia emerge nell’informazione mainstream che racconta i fatti di oggi, figli e conseguenze della storia e degli interessi geopolitici dei grandi della Terra, quante realtà nascoste o minimizzate agli occhi della comunità. Nei giorni scorsi, centinaia di ebrei hanno dimostrato a Washington, nell’atrio del Cannon House Office, accanto al Parlamento degli Stati Uniti, per chiedere una tregua nei bombardamenti di Gaza. Fra di loro rabbini e attivisti del gruppo “Voci ebree per la Pace”. Cartelli e slogan che dicevano “Non nel mio nome”, “Gli ebrei dicono tregua subito” o “Il mondo ci guarda”. È stata la più grande protesta ebraica di solidarietà con i palestinesi nella storia degli Stati Uniti, conclusa con centinaia di arresti e passata troppo sotto silenzio in Europa e in Italia. Ambigua e pericolosa anche la posizione assunta dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.

C’era una volta un ragazzo, si chiamava Vittorio Arrigoni ma tutti lo ricordiamo come “Vik”. Vik, che si sentiva vicino agli operai degli stabilimenti Fincantieri che “costruirono le stelle del mare, li trafisse la polvere d’amianto, li uccise il profitto”. Vik che stava dalla parte di Chico Mendes ed era grande amico di Enzo Baldoni, perché la Palestina e Gaza sono ovunque, e che decise di vivere proprio a Gaza. Vittorio Arrigoni, Vik, la striscia di Gaza l’ha vissuta. Ha raccontato come si vive e si muore in quel pezzo di terra dimenticato da tutti. Lo ha fatto fino a che ha avuto voce, su Il Manifesto e su PeaceReporter, su Radio Popolare e Radio 2, e sul suo blog, “Guerrilla Radio”. Quando Israele scatenò l’inferno su Gaza con l’operazione “Piombo Fuso” la sua voce diventò una testimonianza fra le più seguite a livello internazionale.

Scriveva, raccontava quell’inferno che in molti nel mondo si rifiutarono di vedere: “Il nuovo anno è subentrato a quello vecchio con gli stessi auspici di morte e desolazione, elevati alla massima potenza distruttiva. Mai viste così tante bombe crollare attorno a casa mia, dinnanzi al porto. Un’esplosione a meno di 100 metri ha scosso violentemente i 7 piani del mio palazzo, facendolo oscillare come un pendolo impazzito. Per un momento abbiamo temuto venisse giù, i vetri delle finestre sono scoppiati tutti. Momenti di panico, ho pregato iddio che il nostro edificio fosse stato costruito con criteri antisismici, ben conscio della mia effimera illusione, Gaza poggia su di una striscia di terra che non trema. Il terremoto qui è innaturale, si chiama Israele”.

“Sarà per questo -scriveva Vik – che i governanti occidentali, così compassionevoli e caritatevoli, lesti nel mettersi una mano sul cuore e l’altra nel portafoglio, spesso per propaganda personale, quando si tratta di versare parole e fondi in soccorso delle popolazioni colpite da catastrofi naturali, dinnanzi a questa di catastrofe innaturale, progettata a tavolino in ogni suo minimo dettaglio a Tel Aviv mesi fa, si mettono una mano dinnanzi agli occhi e l’altra a pararsi l’orecchio, e sembrano non prestare attenzione alle strazianti urla di dolore di corpi innocenti fatti a brandelli senza pietà. Disinteressarsi della costante e progressiva distruzione di moschee (e siamo già ad 8), scuole, università, ospedali, decine e decine di edifici di civili. Proseguo nella mia disperata ricerca di quegli amici che non rispondono più al mio telefono… Restiamo umani, Vik”.

Ecco, quel “Restiamo umani” è il solo e vero passo che tutti abbiamo il dovere di compiere. Non è facile, ma è l’unica possibilità per costruire quel domani dove il “diritto di esistere” possa essere un diritto di tutti.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org