Maria Chiara Valacchi è una curatrice d’arte contemporanea. Non ce ne sono molte in giro come lei, la distinguono grande professionalità ed egregie doti comunicative. Scrive d’arte su numerose testate giornalistiche, tra cui Artforum di NY. Nel 2010, a Milano, fonda “Cabinet”, uno spazio in via Tadino dove esprime la propria vena curatoriale attraverso progetti in forma di double shows: mostre che mettono sempre a confronto il linguaggio pittorico con quello installativo. Un’idea ambiziosa che ha portato numerosi artisti di fama internazionale a intervenire sia con opere inedite che interventi site specific. Ha fondato anche Paint! (paintdiary.com), piattaforma dedicata esclusivamente alla ricerca e alla diffusione della pittura contemporanea attraverso un meccanismo redazionale che coinvolge i pittori internazionali in prima persona.

Maria Chiara viene dal mondo del restauro. Si diploma all’accademia di Brera in restauro del contemporaneo, ma capisce subito che questo mondo le va stretto. Chi si forma in restauro ha un approccio profondamente analitico nei confronti dell’opera d’arte sulla quale bisogna agire e sull’artista che l’ha realizzata. Pigmenti, leganti, supporti: ogni singolo elemento che compone un’opera è fondamentale per la percezione della stessa da parte del fruitore. Con Maria Chiara Valacchi, che ci ha rilasciato un’intervista, abbiamo parlato della sua formazione, delle sue idee e dello stato dell’arte in periodo di pandemia.

Perché hai cambiato strada e ti sei dedicata alla curatela?

Più che una scelta è stato il risultato di un susseguirsi di eventi. Agli inizi del 2000 la scena Milanese era fervente, molte gallerie nascenti e molte riviste online davano la possibilità a giovani artisti e curatori di poter sviluppare il proprio lavoro e una direzione critica. Ho iniziato sin da giovane, frequentando gli ambienti, conoscendo gli attori e scrivendo per diversi blog e riviste di settore. Conseguentemente sono arrivate le prime mostre che coinvolgevano principalmente artisti emergenti in molti luoghi ormai non più esistenti o dimenticati della città.

La tua formazione ha influito sulla tua attuale professione?

La mia formazione è stata basilare, gli studi della chimica, fisica, estetica, filosofia e non ultimo dell’arte classica e contemporanea sono stati necessari a comprendere le nuove generazioni e a riconoscerne la qualità nel lavoro.

Prediligi artisti che usano le tecniche tradizionali o sei incline a collaborare anche con artisti che lavorano, ad esempio, in digitale?

Prediligo gli artisti bravi. Non pongo limiti all’espressione in ogni sua forma, anche se la mia ricerca si è sempre avvicinata maggiormente, per gusto personale, alla pittura.

Il Covid ha compromesso il mercato dell’arte, e a farne le spese sono state soprattutto le gallerie di piccola e media grandezza. Qual è stata la tua strategia, se ne hai avuta una, per rimanere a galla durante i difficili mesi che hanno preceduto quest’intervista?

Non avendo uno spazio caratterizzato da un esclusiva mission commerciale, ma al contrario espositiva, ho avuto la fortuna di non basare i miei introiti su un collezionismo che ne sosteneva le spese. Cabinet è sempre stato caratterizzato da una gestione molto leggera, la collaborazione con gli artisti e il supporto di loro medesimi e delle gallerie che li rappresentano nel mondo ha sempre agevolato l’attuazione del mio programma.

New York è stata pesantemente colpita dagli effetti del Covid, la città si sta gradualmente svuotando (c’è un calo degli affitti del 40%) e lo smart working sta portando molta gente a trasferirsi in zone meno costose e più verdi anche se periferiche. Credi che questo fenomeno possa interessare anche il mondo dell’arte e portare a una delocalizzazione delle aziende culturali?

Penso che questo fenomeno sia verificabile e che possa essere positiva una riorganizzazione in tal senso; una trasformazione che includa il concetto di svincolamento dagli standard tradizionali probabilmente verso l’accorpamento di spazi privati e pubblici in luoghi deputati e anche delocalizzati rispetto alle città.

Potrebbe accadere anche in Italia?

L’italia purtroppo è una nazione estremamente colpita dal Covid, la nostra gestione nonostante le critiche però è risultata la migliore ma credo che, nonostante questo, la crisi economica inciderà molto in molti campi, compreso il nostro, soprattutto nel reparto emergente. Riorganizzarsi per rendere le spese più sostenibili sarebbe una mossa intelligente.

Art Verona, con cui collabori da quest’anno, ti ha invitato a moderare e curare le “talks” di questa sedicesima edizione (per approfondire le criticità e le possibilità del sistema dell’arte in un confronto con i principali operatori). Come immagini la situazione di dicembre? Secondo te sarebbe il caso di pensare a un’alternativa digitale?

Non credo nelle fiere digitali, penso che l’opera abbia bisogno di essere vista fisicamente, sosterrò comunque il direttore Stefano Raimondi, di cui stimo l’operato, nelle scelte che prenderà in tal senso. Ancora non sappiamo cosa succederà a dicembre, la situazione non è ancora prevedibile, speriamo di non doverci porre il problema.

Come vedi il futuro dell’arte contemporanea in Italia alla luce di una situazione incerta che frena qualsiasi organizzatore di eventi?

Penso che l’urgenza in questo momento sia quella di non avere nessuna urgenza. Siamo nel pieno di una pandemia e dovremmo renderci conto che la nostra vita deve sottostare, nostro malgrado, a delle regole naturali impazzite, gestire la situazione nel suo evolversi e accantonare per adesso controllo, necessità o voglie.

Grazie mille a Maria Chiara per aver guardato nella sua sfera di cristallo, staremo a vedere cosa succederà.

Angelo De Grande -ilmegafono.org