Non è ancora una svolta, ma ci si avvicina. L’apertura degli Stati Uniti alla Cina, con la visita del Segretario di Stato, Antony Blinken, a Pechino, è il primo segnale di disgelo tra le due superpotenze da quando, nel 2020, Donald Trump passò dalle minacce alle sanzioni economiche. Il paradosso è che quelle sanzioni contro la Cina fecero perdere più soldi agli Stati Uniti: le ritorsioni cinesi andarono infatti a colpire settori critici per gli USA, come l’agricoltura, e a distanza di anni si può affermare che la capacità commerciale e politica della potenza asiatica non ne è stata minimamente scalfita. Anzi, in questa fase la Cina si è rafforzata, acquisendo il controllo di materie prime strategiche quali le terre rare, dimostrando di essere insostituibile nella filiera industriale globale. L’economia della Cina post-Covid è ripartita a buon ritmo, mentre gli Stati Uniti sono sì tornati a crescere, ma con moderazione.

Soprattutto, negli ultimi anni è cambiato il ruolo politico della Cina, divenuta leader di una variegata schiera di Paesi che, per diversi motivi, la ritengono un alleato affidabile. Pechino non soltanto compra materie prime e investe in infrastrutture, ma non si immischia mai in questioni di politica interna: non ama parlare di diritti umani né di democrazia, non si pone come portatrice di valori superiori a quelli degli altri, si spende per il multilateralismo e per la risoluzione pacifica dei conflitti in sede internazionale. È il contrario della politica estera di Washington, che resta il punto dolente nei rapporti tra la potenza nordamericana e gran parte del resto del mondo. Se per gli Stati Uniti i rapporti con l’America Latina sono un problema, per via delle migrazioni, per la Cina rappresentano un’opportunità. Se nel conflitto russo-ucraino gli Stati Uniti sono una parte fondamentale della tenuta militare dell’Ucraina, la Cina non ha mai trasferito una sola arma a Mosca e ha avanzato una sua proposta di pace, per ora l’unica, pur con i suoi limiti, sulla scena internazionale.

La consapevolezza che si sta facendo avanti nell’amministrazione Biden, che in realtà non ha cambiato di molto la linea di Trump, è che senza la Cina non è possibile ristabilire un qualsiasi ordine mondiale. E i fatti dicono che trovare un ordine è più che mai necessario, non soltanto per i focolai di guerra, ma anche per gli effetti incombenti del cambiamento climatico. La fase ottimista degli anni Novanta, che si affidava alla globalizzazione, è stata definitivamente consegnata alla storia: oggi quel fenomeno che doveva ripianare le differenze e plasmare il mondo del futuro per molti è diventato un incubo.

Soprattutto per la miriade di Paesi che sono esclusi dai flussi commerciali che contano, Stati divenuti ancor più marginali di prima, doppiamente discriminati perché ininfluenti sia sul piano politico sia su quello economico. In questo contesto si moltiplicano le operazioni di scambio condotte in valute locali, intaccando il primato del dollaro; si allunga l’elenco dei Paesi che vorrebbero entrare nel club dei BRICS; anche i leader africani, oltre a quelli latinoamericani, si spendono perché si avvii un dialogo che porti alla fine del conflitto in Ucraina.

Dietro tutte queste mosse c’è sempre Pechino, che in questi ultimi due anni ha confermato il ruolo di superpotenza diversa rispetto a quelle del passato. La Cina guarda più agli affari che alle armi: ed è proprio per questo che “sfonda” tra i Paesi del Sud globale, che da sempre hanno chiesto questo approccio senza essere mai presi in considerazione. La Cina, però, non è Zorro, il giustiziere amico dei poveri. È un Paese che è stato povero fino a pochi decenni fa, e che ora sta sfruttando a suo favore una congiuntura unica per raggiungere la vetta mondiale. Gli Stati Uniti, che da soli non sono riusciti a imporre il loro ordine, a questo punto devono ripiegare e cercare una convergenza con Pechino. Anche nel loro interesse futuro.

Alfredo Luis Somoza -ilmegafono.org