L’Italia non è un Paese per donne. Lo sapevamo già. Ma ogni volta sembra che sia una novità, ogni volta ci sconvolgiamo come fosse la prima. Per la verità, in generale, sembra quasi che ormai ci si sconvolga sempre meno. Al massimo, giusto quando succede l’irreparabile. Quando il dramma si è già compiuto. Le vittime della violenza maschilista sono quotidiane, hanno nomi e storie di vessazioni, di ribellione, di tentativi disperati di salvarsi e sottrarsi all’ossessione, alla crudeltà, alle minacce. E a quella morte che si potrebbe evitare se questo Paese fosse diverso. Se questo Paese trattasse diversamente la questione di genere, se partisse dall’inizio, dall’educazione prima che dalla rieducazione. Perché di assassini che si pentono, molto spesso solo per ragioni processuali, o che si tolgono la vita poco dopo perché scioccati, non ce ne facciamo nulla.

E anzi dovremmo imparare a trattarli per quello che sono: assassini appunto. Prima ancora aguzzini, torturatori, stupratori, sopraffattori di donne che considerano di loro proprietà per via di una sottocultura nostrana che assegna agli uomini strane forme di diritto. Il diritto di vivere liberamente, di avere vantaggi economici e di ruolo sul lavoro, il diritto di vestirsi come credono, il diritto di vivere la propria libertà sessuale, il diritto di scegliere di concludere un rapporto o divorziare. Il diritto esclusivo, però, quello che non è reciproco, non è ammesso per le donne. Ciò che per un uomo è ritenuto normale, infatti, per una donna viene ancora considerato una forma di concessione. E qualsiasi forma di libertà o di ribellione, alla fine diventa una colpa. Voler chiudere una relazione, volerne vivere un’altra con qualcun altro, voler rompere con una vita che sta stretta, voler vivere la propria libertà, tutto diventa colpa agli occhi di una società come la nostra, perfino nel momento più tragico, perfino dinnanzi all’omicidio.

Non è solo questione di uno o due giornalisti rimbambiti che pongono domande viscide come la propria anima, qui la questione riguarda tutti, anche quelli che pensano di essere diversi, di essere più attenti. Ci cascano tutti, ogni volta che al racconto di un femminicidio il focus si sposta sulle cause, sulle “ragioni” del gesto. Viene il voltastomaco a leggere articoli che usano ripetutamente la parola “amore”, aggrappata al concetto di non rassegnazione, fragilità, a frasi come “non accettava la fine della relazione”, e così via. Il tutto corredato da una analisi spicciola dei problemi dell’omicida, dal lavoro alle grane familiari, al passato difficile. Viene da chiedersi cosa ci sia nella testa di chi, davanti al corpo finito di una donna, giovane o non giovane, madre o non madre, per prima cosa pensa “chissà che ha fatto?”.

La verità è che questo Paese è crudele. Punisce le donne molto prima che arrivino la lama o il proiettile ad eseguire la condanna. È crudele nel linguaggio, nelle leggi, nelle concezioni malate, nella visione distorta della sessualità, nella retorica idiota della verginità e di un valore che è tale solo nella testa di chi si è drogato di dogmi e bigottismo di matrice confessionale o subculturale. La favola marcia del peccato originale ce la portiamo dietro come bambini non cresciuti, come automi incapaci di pensare, criticare, essere liberi. Così in un Paese nel quale una donna libera è considerata una “puttana” e un uomo libero è considerato un “simpatico mascalzone”, nel Paese in cui una prostituta è disprezzata da tutti, mentre i suoi clienti non ricevono la minima esecrazione, i pregiudizi sono le armi che finiscono nelle mani di uomini inutili, frustrati o moralmente flaccidi, che usano tutto quel sistema di concezioni per additare chi non obbedisce, chi non accetta di adattarsi a una realtà disumana, discriminatoria.

Quelle armi diventano poi violenza, psicologica e fisica, stupro consumato spesso tra le mura domestiche, terrore, morte. Atti criminali che essi compiono sentendosi al sicuro, nella convinzione di rimanere in qualche modo impuniti, assolti culturalmente, compresi. Perché ci saranno sempre un avvocato, un parente, un giornalista a trovare una ragione, una giustificazione, qualcosa che in qualche modo sposti sulla donna la colpa del suo essere diventata vittima. In tutto questo, c’è uno Stato che non fa abbastanza. E non solo sul piano legislativo, quello della applicazione severa e dell’inasprimento delle leggi o dell’investimento massiccio in strumenti di prevenzione. Non lo fa soprattutto sul piano culturale e sociale, non lo fa sul piano educativo, scolastico, del linguaggio, del rispetto, dello smantellamento della società dei padri e del maschio dominante. Possiamo ripeterli tutti i nomi di chi poteva esserci e oggi non c’è più: da Zina a Fabiana, da Violeta a Enza, e così via. Possiamo aggiungere i nomi immaginari di tante donne che subiscono in silenzio e il cui orrore ci è ancora sconosciuto, ma non servirà a nulla.

Non servirà fino a quando non si deciderà di intervenire nel rapporto culturale tra questo Paese e le donne. Fino a quando non si manderà a quel paese chi ad esempio afferma ancora che esista uno sport non adatto alle donne, che peraltro hanno dimostrato di ottenere risultati migliori dei loro colleghi maschi. Non servirà fino a quando la retorica sulla famiglia sarà esercitata puntando sul ruolo di sottomissione della donna. Non servirà fino a quando non si puniranno le aziende che discriminano e minacciano chi ha scelto di mettere al mondo un figlio. Non servirà fino a quando non si insegnerà agli uomini ad essere Uomini e non maschi. Non servirà fino a quando una questione che ha numeri da emergenza sicurezza continuerà ad essere trattata come semplice fatto di cronaca.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org