È risaputo ormai che la memoria, ahimè, non è esattamente la migliore qualità del genere umano in questo periodo storico, ma come darci torto? Veniamo continuamente bombardati di notizie e contenuti di natura estremamente diversa ogni singolo istante della nostra giornata: titoli allarmistici, complotti, gattini, urla politiche, sketch del gf, crisi e crolli di governi. Il 2019, che sembra così lontano, è stato un anno decisamente critico per il clima e gli equilibri politici internazionali: intere nazioni in fiamme, (quasi) genocidi di tribù che rivendicavano il diritto di poter vivere la propria terra, la terribile conta della scomparsa di molte specie, i movimenti Friday for Future e Skolstrejk för klimatet con Greta e “l’esercito” di studenti, il surriscaldamento oceanico, il permafrost in fin di vita, kilometri di scheletri di barriere coralline, la guerra mediatica (e non solo) alle ONG e l’altra agghiacciante conta delle vite inghiottite in mare.

Sembrava che l’intera umanità stesse per implodere quando la catastrofe Covid-19 si è fatta avanti, ha fermato il mondo, si è insediata nelle prime pagine di tutte le testate, blog, forum, gruppi whatsapp, discorsi a tavola e chiacchiere da bar. E ormai le occupa avidamente da circa un anno. Si, è vero, si continuano a trovare contenuti che parlano di economia, politica, cultura, medicina, scienza, tecnologia, amministrazione, complotti, carlini e balletti di tik-tok, ma sempre in tema Covid. E del clima? Non si parla più del clima?

Dove sono finiti tutti quei teorici del cambiamento climatico? Che fine hanno fatto le centinaia di influencer che mi riempivano la bacheca di prodotti ecosostenibili? Un buco nero ha inghiottito dalle classifiche degli argomenti di tendenza lo slowfashion e i post con le vostre foto con in mano sacchetti di spazzatura raccolta nelle strade, campagne, spiagge e boschi vari? C’è stata una segnalazione di massa su tutti i post di denuncia, i video indignati e gli infiniti tutorial su come costruirmi un orto da parete in cucina per le piante aromatiche con uno stuzzicadenti e un filo di nylon?

L’esperienza del Post Vandalismo

È qua che entra in gioco forse il più nobile tra i compiti dell’arte: mantenere viva la memoria nella coscienza umana. Se il problema rifiuti (che giusto per puntualizzare non è stato risolto) è quasi sparito dalla lista degli argomenti caldi dei più, per molti artisti, invece, è il motore fulcro che muove la loro intera poetica e produzione artistica. Angelo Bramanti, siracusano, classe ’83 (su Instagram @angelobramanti), rientra in questa rara categoria di artisti come esponente del Post Vandalism (o Post Vandalismo). Questo movimento artistico contemporaneo è caratterizzato dallo scopo di cercare di riportare l’ordine nel caos dei luoghi e degli oggetti vandalizzati attraverso l’uso di materiali di scarto, spesso trovati in quegli stessi luoghi.

Lo stesso Bramanti dichiara: “Il fascino delle cose abbandonate, buttate via, delle cose vecchie o scartate, dimenticate oppure intenzionalmente rimosse. Materiali di scarto accomunati da una forte valenza artistica, ambientale ed ecologica. Raccoglierli per attribuire loro nuove funzioni, interpretarli secondo nuove razionalità, mostrarli in nuove forme per esaltare il bello delle cose”. Il ready-made che dà nuova vita e nuova memoria ai rifiuti del consumismo, una Junk Art contaminata dall’esperienza della Street Art e della Public Art, ma soprattutto dall’urgenza di dimostrare che la crisi climatica non è passata; non abbiamo smesso di produrre quantità esagerate di rifiuti e che anche quando supereremo la pandemia, il pericolo non sarà passato.

 

Dal Post Vandalism al Paper Vandalism

Di vandalizzato, dunque, non ci sono solo luoghi e oggetti di consumo, ma anche la coscienza e la memoria collettiva, e l’ultimo progetto di Bramanti sembra insediarsi in questo contorto e abissale concetto. Paper Vandalism (su Instagram @papervandalism) è un processo di collage/décollage sviluppato durante quest’ultimo anno quando l’artista ha iniziato ad interrogarsi sul potenziale dell’enorme quantità di riviste, magazine, fumetti, fotografie e, più in generale, delle immagini, con particolare attenzione ai volti, raffigurate sulla carta stampata, accumulati negli anni. Comprati, trovati per strada, regalati, ritrovati, raccolti nelle case di parenti e amici poco importa, l’unica cosa che conta è sempre una: il riuso. Questo percorso inizia sulla carta: i volti, o varie parti dei soggetti scelti dalle copertine o dalle pagine dei magazine, vengono scavati, vandalizzati dall’artista con un taglierino o con l’uso della perforatrice da ufficio, creando un buco, un solco, come a voler definire che l’identità del soggetto si può trovare solo scavando nella memoria.

Un lungo processo di introspezione che si percorre pagina dopo pagina, alla scoperta del proprio io, grazie alla presenza del buco in punti sempre differenti dell’immagine, cambiando dimensioni, forma, divenendo sempre più piccolo, accompagnandoci per mano alla fine del sentiero. Dal solco, il buco, all’aggiunta, il collage, la composizione: i frammenti di carta che si creano dal décollage, infatti, vengono utilizzati su altri volti di pubblicità, magazine, fotografie, sempre creando un’assenza nel volto dei soggetti, una mancanza in parti di frasi, sfondi, immagini che, tramite l’atto vandalico, trovano nuova vita e una nuova identità.

Una profonda riflessione sul complicato rapporto tra consumismo e società. La vendita dei dati, nuova moneta delle multinazionali, ha pian piano cancellato le singole identità degli individui, cucendogliene addosso una nuova, stereotipata, patinata, che rispecchia i canoni dettati dall’industria, trasformando il concetto di diversità in nemico, il mondo naturale come qualcosa di lontano ed edulcorato; ma solo scavando nella memoria possiamo riportare alla luce il più puro rapporto con il mondo e gli individui che ci circondano e, magari, non sentire più il bisogno di distruggere per creare, nella speranza di trovare, così, la nostra nuova identità.

Sarah Campisi -ilmegafono.org