Nella notte di martedì scorso, i Carabinieri del nucleo investigativo di Palermo, in collaborazione con i colleghi di Cefalù, hanno eseguito 11 arresti nei confronti del mandamento mafioso di San Mauro Castelverde (PA). Tra gli arrestati emerge un nome di spicco, quello di Domenico “Mico” Farinella, storico boss di cosa nostra e fedelissimo di Riina e Provenzano nel periodo più sanguinolento della mafia siciliana. La storia del boss Farinella risale agli anni ‘80, anni di sangue, guerre criminali e stragi che hanno martoriato la Sicilia e non solo. L’uomo, come detto, avrebbe orbitato per un lungo periodo intorno alle figure dei due più potenti boss mafiosi, acquisendo così sempre maggior potere e fiducia negli ambienti della criminalità organizzata siciliana.

Un potere che solo nel 1994 gli inquirenti riuscirono a interrompere, con l’arresto di Farinella, che venne successivamente condannato alla detenzione sino al 2019. Proprio l’anno scorso, infatti, grazie a un ricalcolo della pena e all’indulto di cui si sarebbe avvalso, il boss ha ottenuto la scarcerazione, tornando così in semilibertà a Voghera (PV), dove si trovava in condizione di soggiorno obbligato. Nonostante si sia trovato in regime di alta sicurezza durante la sua permanenza in carcere in tutti questi anni, secondo gli inquirenti il boss sarebbe riuscito comunque a comunicare con il figlio Giuseppe e a gestire così gli affari e i movimenti del clan. Una situazione che ha del paradossale, questa, e che dimostra ancora una volta la presenza di falle pericolose e preoccupanti nel sistema carcerario italiano.

Alla scarcerazione di Farinella, ovviamente, il clan non avrebbe esitato un attimo a ricostituirsi e, sempre secondo quanto scoperto nell’inchiesta, la famiglia mafiosa avrebbe fatto leva sul racket nei confronti di piccoli esercenti della zona delle Madonie, oltre che sul trasferimento fraudolento di beni, corruzione, violenza privata, ecc. Una serie di pratiche illegali e tipicamente mafiose, queste, che avrebbero permesso a Farinella di riprendere il totale controllo della situazione.

Per fortuna, però, l’azione tempestiva delle forze dell’ordine e degli inquirenti, aiutata dalle denunce di diversi imprenditori, hanno permesso di estirpare una volta per tutte l’attività criminale del clan e portare all’arresto di diversi elementi. Ancora una volta, quindi, le denunce degli esercenti contro il racket hanno portato a risultati importantissimi in tempi relativamente brevi. Diversamente ci sarebbero voluti probabilmente anni per arrivare a fermare gli estortori. Ci sembra, a tal proposito, doveroso ricordare e sottolineare quanto sia importante denunciare. Il clan, come detto, avrebbe fatto leva proprio sul pizzo per riprendere il controllo del territorio, a dimostrazione del fatto che, sebbene la mafia sia cambiata e si sia rinnovata, sono ancora le attività “tradizionali” a contribuire in maniera sostanziale alla sussistenza stessa delle organizzazioni mafiose.

“Alcuni commercianti cui cosa nostra imponeva il pizzo hanno deciso di dar fiducia allo Stato e lo Stato è arrivato, facendo pulizia”, ha affermato Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia. Gli arresti eseguiti daranno adesso la “libertà di poter fare impresa economica, di poter gestire un’attività commerciale senza dover dare da mangiare a sciacalli parassiti”. Infine, e questa è una notizia molto incoraggiante, Morra nota come si stiano “moltiplicando, poco alla volta, i casi di denuncia alla magistratura e agli inquirenti di richieste estorsive da parte di organizzazioni mafiose, con conseguenze liberatorie per chi denuncia”. Insomma, oggi più che mai, bisogna denunciare e porre così fine al giogo mafioso che attanaglia da troppo tempo la libertà sociale ed economica del nostro Paese.

Giovanni Dato -ilmegafono.org