“Qualche tempo fa Binyamin Gantz, ex capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane, si vantò di aver ‘riportato Gaza all’età della pietra’. Il livello è questo. La verità è che quella di Israele è una classe dirigente ultra reazionaria, che non bisogna esitare a definire fascista, figlia di una sorta di psicopatologia che mira a rendere quello palestinese un popolo di paria che sopravvivono, e non vivono…Chi si batte il petto per la democrazia non ha il coraggio di fiatare nei confronti di Israele”. (Moni Ovadia)

C’è una guerra di cui non si parla più. Come se l’assuefazione avesse vinto la sua partita, ma i motivi di questo silenzio sono altri, figli degli equilibri geopolitici che si reggono sul destino dei più deboli, quelli che non hanno nulla da offrire in cambio della loro semplice ragione di esistere, un diritto che esiste solo sulla carta ma calpestato in ogni angolo della Terra. La Palestina è uno di quegli angoli della Terra. Ogni guerra è una sconfitta per l’umanità, ma l’ipocrisia degli uomini permette che si possa stilare una classifica delle guerre in base a criteri che poco hanno a che vedere con l’umanità. Di una guerra si parla quando diventa una minaccia globale, quando rischia di estendere l’incendio e allargare i suoi confini, quando mette in ginocchio l’equilibrio geopolitico di un sistema. Una guerra resta ai margini quando non tocca le membra e i privilegi della collettività.

Geopolitica e umanità: due parole agli antipodi l’una dall’altra. Quello che succede in una “Striscia” di terra non disturba più di tanto il sonno del mondo: riguarda altri, non riguarda noi, non mette a rischio nessun equilibrio economico e nessun rifornimento energetico. Perché, allora, inimicarsi lo Stato di Israele che molti occidentali considerano “l’unico Paese democratico del Medio Oriente con ‘un variegato melting pot’ e una vivace dialettica politica interna in cui i palestinesi sono addirittura rappresentati in Parlamento” (leggi qui). 

In Italia è difficile parlare di Palestina e della politica dello Stato di Israele. L’ombra del passato inibisce la volontà di analisi e qualunque critica sull’operato dello Stato di Israele viene avvolta nella cappa dell’antisemitismo di cui Israele si fa scudo per misurare il livello di critica al proprio agire politico e per misurare la Comunità Internazionale. Eppure, i settantacinque anni di vita dello Stato d’Israele sono gli stessi anni della “Nakba”, la “Catastrofe” del popolo palestinese. Nel 1948, un’operazione di pulizia etnica crea un popolo di profughi: sono quasi un milione i palestinesi allontanati dalle loro radici e dalle loro case. Ad essi viene “concesso” di vivere ammassati in quell’angolo di Medio Oriente disintegrato dalle guerre cui l’Occidente non può dirsi estraneo, confinati nei territori occupati della Cisgiordania e di Gaza, circondati da un muro e presidiati dall’esercito israeliano. La Striscia di Gaza è il girone dantesco del loro inferno. Eppure loro, i palestinesi, sono il motore dell’economia israeliana, l’esercito di riserva senza diritti, nelle fabbriche e nelle multinazionali che investono in Israele.

Questa, oggi, è la condizione di una comunità che vive sospesa in una realtà dove i posti di blocco sono l’ostacolo di un vivere quotidiano fatto di privazioni, di mancanza di acqua e corrente elettrica. Dal 1948, anno della proclamazione dello Stato di Israele, guerre e accordi di pace si sono inseguiti e ogni volta il bagno di sangue è stato enorme, battezzato dai vari governi di Israele con nomi che erano già un programma politico: dalla “Pace in Galilea” all’operazione “Piombo fuso”. Oggi, dopo settantacinque anni, la guerra di cui nessuno vuole parlare è davanti a noi e ci dimostra che il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi è negato dall’occupazione di Israele (leggi qui).

Lo Stato di Israele ignora e viola ogni risoluzione ONU, non risponde alle accuse anche quando queste arrivano dal proprio Paese: la più grande organizzazione per i diritti umani israeliana, B’Tselem, ha pubblicato “This is apartheid”, un report che racconta come i governi di Israele hanno costruito nel tempo la discriminazione verso i palestinesi su base etnica. Anche Human Rights Watch ha mostrato come “l’autorità israeliana ha confinato i palestinesi con un’autentica politica di apartheid” e la stessa Amnesty International, nel febbraio 2022, ha definito il regime di Israele come “un sistema di dominazione che secondo il diritto internazionale può essere definito come apartheid”. Oggi il governo israeliano non nasconde affatto la propria matrice fascista. Benjamin Netanyahu è il capo di questo governo, lo era già stato altre volte in passato: sionista, leader del Likud, teorico convinto della linea dura nella Striscia di Gaza, negazionista dell’Olocausto.

Netanyahu è stato ricevuto pochi giorni fa a Roma dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha ribadito che “Israele è un partner fondamentale in medio Oriente e a livello globale. Il governo italiano è impegnato con un grande lavoro contro l’antisemitismo: abbiamo un’amicizia che viene da lontano […] il governo italiano è pronto a sostenere ogni iniziativa volta a favorire la ripresa di un processo politico anche tra Israele e Palestina. Siamo disposti a fare tutto quello che possiamo per facilitare la ripresa di accordi e una ovviamente de-escalation della violenza”. Netanyahu ha risposto che “con l’Italia abbiamo un’amicizia che è di lunga durata e crescente, e credo che stia per assumere una dimensione ancora maggiore. Sono colpito dalla visione e leadership di Meloni e dalla decisione di portare i nostri rapporti ancora più avanti. C’è spazio per una enorme collaborazione e un miglioramento”.

“Bisogna accelerare- ha aggiunto Netanyahu – le esportazioni di gas verso l’Europa attraverso l’Italia: ora c’è la partecipazione dell’Eni nel nostro progetto, ma riteniamo di poterle portare ad un livello ancora superiore”. Nella conferenza stampa conclusiva, Netanyahu ha invitato Giorgia Meloni a Gerusalemme, “accompagnata da 50 o 100 aziende leader”. Una cooperazione strategica che va dall’intelligenza artificiale alla cyber-security. Quali sono i nomi delle aziende italiane più coinvolte in Israele? Alcuni nomi su tutti: Eni, Leonardo, Telecom. Di cosa si occupano queste aziende? Energia, sicurezza, difesa, armi. Per la democrazia e i diritti umani, per la fine di un apartheid, non c’è tempo.

Israele resta la pedina fondamentale nello scacchiere mediorientale, autentico mosaico di un caos che conviene a tutti, anche a chi come Hamas gioca il ruolo sporco di “amico dei Palestinesi”. Il prezzo è pagato dal popolo Palestinese, che resta avvolto nell’indifferenza dei tanti fino alla prossima Intifada o fino alla prossima operazione militare, al prossimo “piombo fuso” che proverà a chiudere la partita in nome del “diritto di Israele di difendersi”. Un “diritto” che, di fatto, legittima quel processo di annientamento e di pulizia etnica che è la vita di tutti i giorni nei territori palestinesi, perché da Gaza non si può nemmeno scappare: a Gaza si muore o si resiste. Quando, un giorno, un bambino di domani chiederà a un vecchio cos’era la Striscia di Gaza, la risposta sarà facile: era un inferno, e il mondo ha osservato il fuoco che bruciava tutto, un giorno dopo l’altro.

“Perché sappiamo che Palestina non indica una remota ragione dall’altra parte del mondo, ma semplicemente un paese sull’altra sponda del Mar Mediterraneo… Perché sappiamo che la colonie israeliane sono costruite su terra rubata ai palestinesi. Perché sappiamo cogliere la poesia e la storia che si cela dietro una chiave tramandata da padre in figlio, per generazioni. Perché sappiamo che la striscia di Gaza è la più grande prigione a cielo aperto mai esistita”. (Vittorio Arrigoni – “Vik”)

Maurizio Anelli -ilmegafono.org