Nella storia di questo paese c’è un libro che in pochi vogliono leggere fino in fondo. Sull’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi porta a Palermo c’è il rettilineo di Capaci e, su quel rettilineo, un giorno di trent’anni fa venne scritta la pagina 1 di un nuovo capitolo lungo 57 pagine, culminato in una strada di Palermo, via d’Amelio. Tutti i capitoli di quel libro, prima e dopo quelle 57 pagine, assumono contorni ancora più torbidi e inquietanti. È un libro scritto a più mani, dove le pagine scritte sui tavoli sporchi di qualche masseria si confondono con quelle scritte su fogli appoggiati su eleganti scrivanie dentro le stanze dello Stato e delle sue istituzioni. Quelle 57 pagine sono il simbolo della sconfitta di uno Stato e delle sue figure migliori, quelle che, da sole, fanno sembrare questa società più bella di quello che è nella realtà.

Giovanni Falcone diceva che “si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno… il dialogo Stato/mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela”. (dal libro – Cose di Cosa Nostra – intervista a Giovanni Falcone di Marcelle Padovani). La mafia ha sempre eliminato i suoi nemici e il tritolo di Capaci e via d’Amelio è stato il punto esclamativo di un’eruzione vulcanica cominciata con Rocco Chinnici, ma prima e dopo quell’estate di fuoco la mafia non ha mai smesso di fare terra bruciata intorno a chi la combatteva.

E adesso cosa rimane? Cosa è cambiato in questo Paese in cui tutto cambia per non cambiare niente? La prima risposta è che, forse, è cambiata la forma del potere mafioso ma non la sostanza: Falcone e Borsellino non ci sono più e quel gruppo di uomini, quel “pool” dove l’intelligenza e il coraggio sapevano essere una forza unita e capace, non ha avuto il tempo di sconfiggere quell’organizzazione parallela. Quel dialogo Stato-mafia di cui diceva Giovanni Falcone continua ancora. In modo diverso e forse meno appariscente, ma continua. La stagione delle stragi ha lasciato il posto ad una metamorfosi che ha portato ad un consolidamento del controllo del territorio, sia dal punto di vista sociale che da quello economico, che resta il vero obiettivo di tutti i poteri mafiosi. E quel territorio si è esteso sempre di più, uscendo dai confini locali e ramificandosi nel Paese da Nord a Sud, sfidando quella narrazione che ci dice che la mafia nasce dalla miseria e dal degrado, stringendo la mano della corruzione politica e della finanza senza scrupoli in un intreccio senza fine.

Quell’intreccio è la linfa di quel sistema che non può vivere nella legalità e quell’intreccio, per anni, è stato sottovalutato e ignorato dallo Stato e da troppi cittadini: era il 2010 quando Roberto Maroni, ai tempi presidente della Regione Lombardia, dichiarava che “la mafia in Lombardia non esiste!” La storia gli dava torto: già nell’immediato dopoguerra la Lombardia era un punto di incontro e di appoggio per la mafia siciliana, per la camorra e per la ‘ndrangheta. È in Lombardia che le organizzazioni mafiose si sono arricchite con ogni mezzo, dagli affari più sporchi alle attività solo apparentemente legali. L’evoluzione di questi traffici ha generato nel tempo quel controllo del territorio fondamentale per tutte le mafie (leggi qui).

I dati, pubblici, sui beni confiscati alle mafie dimostrano che la mafia in Lombardia esisteva ed esiste. Oggi quel sistema è ancora forte e presente e, se possibile, ancora più ramificato in ogni settore e attività pubblica e privata. Le strategie di infiltrazione vanno dai flussi di denaro necessari per alimentare quel sistema fino al collocamento delle persone all’interno del sistema stesso, per controllarlo e indirizzarlo. Il tutto è forse più sottotraccia e meno appariscente rispetto al passato, ma non per questo meno invasivo e determinante. I settori di interesse aumentano e si aggiungono a quelli che, storicamente, sono sempre stati al centro dell’attenzione: per esempio, oggi, e forse non solo da oggi, il settore della Sanità (pubblica e privata) è diventato un settore di investimento importante per le mafie. Per restare alla sola Lombardia la stima relativa alla spesa sanitaria rappresenta la porzione più grande dell’intero impegno di spesa della Regione. Gli scandali che in questi anni hanno coinvolto, per esempio, la Asl di Pavia e i suoi rapporti con la ‘ndrangheta, sono molto più di un segnale (leggi qui).

In questo Paese, il peso specifico della “legalità” sembra allora un’opzione marginale, e questo inevitabilmente coinvolge lo Stato e le istituzioni ma coinvolge anche il ruolo di noi tutti, cittadini di questo Stato. Quando Giovanni Falcone sosteneva che “la mafia si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa”, coglieva perfettamente nel segno e, quel segno è diventato un’asticella che ogni giorno viene spostata più in alto. È naturale e umanamente facile percepire la presenza delle mafie quando esplode un chilometro di autostrada e quando un’autobomba sbriciola un palazzo; in quei momenti si percepisce chiaramente il valore di chi paga con la propria vita il prezzo della lotta alla mafia.

Poi, la stagione delle stragi si zittisce per lasciare la parola a quell’opera di controllo delle cose e degli uomini, dalle stragi si passa – o si torna – ai Consigli di Amministrazione, alla gestione della cosa pubblica, ai piani regolatori delle città, ed è lì che diventa più difficile percepire le mafie e vederne il reale pericolo, quando il lavoro delle mafie è diverso da quello, volutamente violento e visibile a tutti, che ha caratterizzato gli anni delle stragi. Ma è anche così che le mafie costruiscono la loro tela di ragno e il loro potere, in quei vortici di attività dai contorni sfumati e che passano attraverso la poca visibilità mediatica e il silenzio dello Stato e di gran parte della politica. Anche questo Giovanni Falcone lo aveva capito molto bene, individuando quel “terreno di coltura” su cui la mafia cresce e prolifera.

Esiste, in questo Paese, un grande bisogno di legalità. Ma questa parola, spesso, è male interpretata: si parla molto di legalità quando si parla di migranti e di sicurezza, e la storia di Riace e la condanna assurda e vergognosa di Mimmo Lucano sono significative in questo senso. Se ne parla troppo poco, invece, quando si tratta di gestione degli appalti e di grandi opere, di gestione delle città e del Paese, delle istituzioni dello Stato. 57 giorni, da Capaci a via d’Amelio. Poteva e doveva cambiare il volto del Paese dopo quei giorni, invece non è cambiato quasi nulla. Lo Stato è ancora lontano dai bisogni delle persone e da quella ricerca di verità e giustizia che le troppe pagine nere della storia di questo Paese ancora aspettano.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org