“Ce l’abbiamo fatta Giovà, dopo 30 anni”. Sono le parole di un biglietto trovato sulla tomba di Giovanni Falcone nella chiesa di San Domenico, a Palermo, dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, boss di cosa nostra, che ha avuto un ruolo centrale durante il periodo stragista degli anni 1992 e 1993. Ma chi è davvero Matteo Messina Denaro? Che ruolo ha avuto in cosa nostra? Di quali crimini si è macchiato? Il boss catturato il 16 gennaio 2023, soprannominato “u siccu” e “Diabolik”, è nato a Castelvetrano, in provincia di Trapani, il 26 aprile 1962. È figlio di Francesco (don Ciccio), capo della cosca mafiosa di Castelvetrano e del relativo mandamento, a partire dagli anni ‘80. Nell’ambito del processo per l’omicidio, avvenuto nel 1988, del giornalista Mauro Rostagno, i pentiti Angelo Siino e Vincenzo Sinacori hanno dichiarato che l’omicidio fu voluto proprio da Francesco Messina Denaro, il quale avrebbe dato incarico al boss trapanese Vincenzo Virga perché provvedesse all’uccisione di Rostagno.

Matteo Messina Denaro cresce, quindi, in ambiente di mafia. Si dedica con passione al lavoro di fattore (come il padre) nelle tenute agricole della famiglia D’Alì Staiti, già proprietaria della Banca Sicula di Trapani, il più grande istituto bancario privato della Sicilia, e delle saline di Marsala e Trapani. Il suo padrino di cresima, Antonino Marotta era un “uomo d’onore” ed ex membro della banda di Salvatore Giuliano, coinvolto anche nella misteriosa morte del bandito. Matteo, insomma, è un mafioso, figlio di mafioso, con conoscenze e “parentele” mafiose, legato per il suo lavoro ai poteri economici del territorio, un territorio che abbraccia anche le province di Palermo ed Agrigento. Nel 1989 viene accusato di essere affiliato a cosa nostra per il suo presunto coinvolgimento nella sanguinosa rivalità tra le famiglie Accardo e Ingoglia di Partanna.

Ma qual è il suo curriculum criminale? Secondo alcune fonti, egli avrebbe inaugurato la stagione degli omicidi quando era ancora minorenne, su incitamento del padre, cominciando ad essere il pupillo del boss corleonese Totò Riina. Nell’anno in cui viene accusato di essere affiliato a cosa nostra, il 1989, suo padre lo fa partecipare a quattro omicidi di mafiosi, nell’ambito della guerra di mafia tra mandamenti rivali. I Messina Denaro sostengono, ovviamente, i corleonesi. Matteo accumula venti condanne all’ergastolo per altrettanti delitti, tra cui quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, che verrà sciolto nell’acido da Giovanni Brusca l’11 gennaio 1996, dopo 25 mesi di prigionia. A “u siccu” si addebita anche l’omicidio del vice direttore di un albergo, colpevole di “corteggiare” una dipendente dello stesso hotel, una ragazza austriaca, di cui si era innamorato e con cui ebbe una relazione.

Il primo ad indagare su di lui fu il giudice Paolo Borsellino. La maggior parte dei suoi guadagni arrivano dalle estorsioni, dallo smaltimento illegale dei rifiuti, dal riciclaggio di denaro e dal traffico di droga. Tantissimo denaro arrivava anche dagli appalti, pubblici e privati: la sua famiglia aveva il monopolio delle costruzioni nella provincia e non solo. Era della famiglia tutto il ciclo produttivo che ha portato all’edificazione di case abusive ovunque, lungo la costa di Castelvetrano e Mazara del Vallo. Ed erano nelle aziende nelle quali si produceva calcestruzzo che avvenivano anche i summit mafiosi. In uno di questi, venne deciso l’attentato al giornalista Maurizio Costanzo e fu messa a punto la strategia stragista che Messina Denaro condivise in pieno. Fu lui a segnalare a Riina i monumenti a Roma, Milano e Firenze da colpire per attaccare lo Stato tra il 1992 e il 1993.

Fu Matteo Messina Denaro a decidere di uccidere Vincenzo Milazzo, capomafia di Alcamo, molto critico nei confronti dei corleonesi, e fu sempre lui a ordinare che dovesse morire anche la fidanzata Antonella Bonomo, incinta di tre mesi, strangolata il 15 luglio 1992. Dopo gli arresti di Totò Riina e Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro diventa il capo indiscusso di cosa nostra. Continua, dalla latitanza, a impartire ordini dai suoi nascondigli tramite “pizzini” cifrati e messaggeri fidati. Il collaboratore di giustizia, Mariano Concetto, ha riferito di aver ricevuto l’incarico da Messina Denaro di rubare il Satiro Danzante, importantissimo reperto archeologico custodito a Mazara del Vallo. Per quel lavoro, rivelò Concetto, “il capo disse che non avremmo visto un euro. E che se ci fossimo lamentati saremmo finiti nel canale di Messina”. Quel furto però Messina Denaro non è mai riuscito a portarlo a termine, per fortuna.

Il 21 ottobre 2020 viene condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Caltanissetta per essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio in cui vennero uccisi Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle loro scorte. Messina Denaro non si è mai sposato. Come riporta fanpage.it, il boss di Castelvetrano è stato a lungo legato a Francesca Alagna, sorella del commercialista di fiducia dell’ex patron della Valtur, Carmelo Patti, sospettato di essere un prestanome del padrino. Dal loro legame è nata anche una figlia, Lorenza, nel 1996, che ha preso il cognome della madre. Mai riconosciuta, come ha confidato a un amico, anche se la donna e la ragazza sono state accolte sin dal primo momento a casa della madre del boss a Castelvetrano. Se ne sono andate solo nel 2013.

Dopo la Alagna, sembrerebbe essere stato legato a Maria Mesi, che è stata condannata a tre anni per favoreggiamento per averlo ospitato durante la latitanza. Da quanto risulta da alcune intercettazioni ambientali, sembrerebbe avere anche un figlio, chiamato Francesco come il padre del boss appena arrestato, avuto da una relazione con una donna di cui nulla si conosce. Questo figlio avrebbe oggi tra i dieci e gli undici anni. Di certo, dopo 30 anni di latitanza, il suo arresto è stato fonte di giubilo per chi crede (e si spera la gran parte degli italiani e delle italiane) che le mafie siano il principale problema di questo Paese. Il suo arresto è stato un successo, ma non la fine di cosa nostra, non la fine delle mafie, non la fine delle collusioni tra le mafie e i poteri che ruotano attorno ad esse, compresi alcuni apparati dello Stato e delle istituzioni. Nonostante la presa di coscienza che le mafie sono ancora lì, con nuovi capi, nuovi boss, nuovi affari, possiamo, comunque, permetterci di scrivere a Falcone, sulla sua tomba: “Ce l’abbiamo fatta Giovà…dopo 30 anni”.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org