A Casal di Principe, un parco giochi ed una piazza sono stati intitolati a due giovani vittime innocenti della criminalità organizzata. Si tratta di Antonio Petito, giovane ventenne ucciso dal clan dei casalesi l’8 febbraio 2002, e di Giuseppe Di Matteo, figlio di un collaboratore di giustizia appartenente a cosa nostra, strangolato e sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996. Il parco giochi è stato dedicato a Di Matteo, la piazza ad Antonio Petito. Del piccolo Di Matteo si sa tanto, del giovane Antonio molto meno. Chi era Antonio Petito? Era l’ultimo di sette figli, nato nel 1982. Viveva con la sua famiglia a Casal di Principe, in provincia di Caserta, regno incontrastato del clan dei casalesi. Con quegli ambienti la famiglia Petito non aveva niente a che fare, era una famiglia perbene, di lavoratori onesti. Anche Antonio era un lavoratore. Aveva aperto un’officina meccanica per aiutare la sua famiglia. Era giovanissimo, Antonio, un volto magro e pulito.

Quel venerdì 8 febbraio 2002, per una banalissima questione di viabilità, aveva discusso con un ragazzino di tredici anni, che gli aveva inveito contro. Un semplice episodio della vita di tutti i giorni. Un episodio che non lo turbò più di tanto, anche quando quel ragazzino gli si avvicinò minacciando che quella stessa giornata sarebbe stato un uomo morto. Ma chi era quel ragazzino? Si trattava di Gianluca “Nanà” Bidognetti, figlio di Francesco, potente boss del clan dei casalesi, all’epoca già recluso al 41 bis. Nanà torna a casa e racconta tutto alla madre Anna Carrino che, da perfetta donna di camorra, convoca i vertici del clan e intima di uccidere Antonio. Non tutti sono d’accordo, ma le decisioni della moglie del boss, non si discutono. Il commando, formato da tre persone, parte quella sera stessa. Antonio era a bordo della sua macchina, un regalo del padre. Lo affiancano e senza pietà gli sparano in faccia 12 colpi di calibro 9.

Antonio muore nel fiore degli anni. Antonio rimane vittima di una barbarie senza fine. L’indagine viene subito archiviata: non ci sono testimoni, nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno parla. Ci sono voluti dieci anni perché qualcosa venisse a galla, affinché alcuni collaboratori di giustizia raccontassero movente e responsabili. Queste rivelazioni portarono all’arresto di Giovanni Letizia, autista del commando, Nicola De Rolla e Gaetano Pagano, esecutori materiali. I mandanti sarebbero stati Anna Carrino e il “reggente” Luigi Guida. Nel 2013 arrivano le prime condanne, confermate, seppur ridotte di qualche anno, dalla Corte d’Appello.

In alcuni territori si muore per nulla: per un rimprovero, un diverbio, uno scherzo di carnevale. A volte si muore anche per amore, perché ti innamori della persona sbagliata. Nanà Bidognetti non è solo un ragazzino, per i casalesi è l’erede al trono e tutti devono portargli rispetto, anche quando taglia la strada a qualcuno. Tutti devono sapere di chi è figlio. Anna Carrino, oggi collaboratrice di giustizia, insiste a condannare a morte il giovane Antonio. Insiste e ottiene la sentenza. È così che vanno le cose nelle terre sotto il dominio delle mafie: mai pronunciare il nome dei boss invano, bisogna stare attenti a salutarli o, in caso di guerra, a non farsi trovare per strada intralciando il loro percorso, perché salutare o non salutare ha sempre un significato. È il terrore. Un terrore che porta a non poter dire mai di no.

Perché nelle terre dominate dai clan, i cittadini sono sudditi e il boss un re dal potere assoluto. Morire facilmente, morire per niente è uno dei pilastri del potere mafioso. Antonio è morto. Si è spento. La sua famiglia vive nel dolore della sua assenza. Papà Mario dice: “Gli avevo comprato un’auto nuova che teneva sempre pulita come uno specchio. Quel giorno con i tergicristalli stava pulendo delle macchie sui vetri. Sapevano tutti chi fosse stato e perché, ma nessuno parlò. Lo dissero solo dopo”. Papà Mario vuole giustizia perché ha conosciuto il dolore vero, profondo, dilaniante. E non lo ignora, proprio come indica lo scrittore tedesco Anselm Grun: “Anche se ti fa paura, non ignorare l’abisso del tuo dolore”.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org