La Grande Camera della Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha respinto il ricorso dell’Italia in merito alla “sentenza Viola” a proposito del carcere duro e dell’ergastolo ostativo nei confronti dei mafiosi. Lo scorso giugno, il boss della ‘ndrangheta Marcello Viola, già in carcere per omicidi plurimi, detenzione di armi e sequestro di persona, aveva fatto causa allo Stato italiano poiché riteneva che l’ergastolo ostativo a cui era stato condannato violasse le condizioni e i diritti base di ogni essere umano. Ma di che si tratta? E che differenza c’è con l’ergastolo che tutti conosciamo? A differenza del secondo, quello ostativo non prevede alcun beneficio: Viola (e come lui quasi altre 1000 persone condannate alla stessa pena) non può accedere a permessi premio, non può ricevere visite, né può ottenere alcuna misura alternativa di detenzione solitamente più “leggera”.

Insomma, si tratta di un “fine pena mai” che segna per sempre la vita e il futuro di un condannato, a meno che questo non decida di collaborare. Proprio così: per lo Stato italiano, infatti, la condizione dello stesso può cambiare solo se questo decide di aiutare i magistrati e di contribuire allo svolgimento delle indagini. Persino nel caso di una collaborazione “oggettivamente irrilevante”: insomma, collaborare paga sempre, ma è chiaro che questo principio non viene accettato da tutti i boss o affiliati di mafia. Quel che probabilmente non risulta chiaro all’interno della Cedu è proprio la natura di certi elementi.

Sebbene la decisione della Corte sia in linea di principio comprensibile (sia chiaro: i diritti umani vanno sempre assicurati, qualsiasi situazione e/o condannato ci si trovi davanti), un boss di mafia che non decide di svelare i retroscena della propria famiglia, delle proprie strategie, del clan di cui è a capo, non cambierà certo nel corso degli anni, nonostante la prospettiva della collaborazione. Un boss come lo stesso Viola gode di uno status del genere proprio perché tutti (soprattutto i suoi affiliati) sanno di poter dormire sonni tranquilli: a che pro, quindi, agevolare o alleggerire la pena per gente che non solo ha compiuto crimini efferati ma che per giunta si rifiuta di collaborare? Perché lo Stato italiano dovrebbe cedere davanti alla non volontà di cedere da parte del mafioso?

La risposta da parte dell’Italia non si è fatta attendere e, per fortuna, la quasi totalità dell’opinione pubblica ha giudicato in maniera negativa una sentenza che rischia di stravolgere anni ed anni di lotte e battaglie antimafia. Lo stesso Procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, per anni protagonista di diverse e fondamentali inchieste contro i clan di ‘ndrangheta, in una intervista rilasciata al Fatto Quotidiano ha mostrato tutta la propria preoccupazione per una sentenza che rischia di far “tirare un bel sospiro di sollievo” ai mafiosi. L’ergastolo ostativo, fortemente voluto da Falcone e Borsellino, è l’unico strumento “per spezzare l’omertà”. Un boss, salvo rare eccezioni, “non si pente per ragioni morali, religiose, ideologiche. Chi parla lo fa per convenienza: perché vuole tornare dalla moglie, perché ha figli piccoli”. Adesso, però, con questa sentenza, “se sai di uscire anche senza collaborare – afferma Gratteri – stringi i denti a bocca chiusa, resisti ancora qualche anno e intanto guadagni meriti agli occhi dell’organizzazione criminale”.

Sia chiaro, nulla di quanto paventato da Di Maio rischia di avverarsi: secondo il ministro, infatti, grazie a questa sentenza i boss potrebbero tornare liberi, ma è evidente che si tratta di un’esagerazione. La Cedu, infatti, ha chiesto semplicemente di rivedere una norma che appare “troppo” dura e che, a conti fatti, impedirebbe al condannato di redimersi. Il pomo della discordia, però, sta proprio in questo: si vuole davvero offrire la possibilità di redenzione a chi combatte contro la giustizia persino dal carcere? A chi non ha alcuna intenzione di collaborare e, in un certo senso, pentirsi dei danni e dei dolori causati in passato?

In un’Unione Europea in cui l’Italia è spesso indietro in tanti ambiti, almeno per quel che riguarda la lotta alla criminalità organizzata possiamo dire che il nostro Paese non ha pari: nessuno, infatti, gode di una cultura e di una conoscenza del fenomeno mafioso tanto ampie e tanto dettagliate come qui da noi. Ecco perché la sentenza della Cedu risulta fuori luogo e a tratti persino ingenua: una sentenza che si basa su fondamenti importanti, certo, ma che non prende in considerazione la realtà delle cose, forse perché semplicemente non è abituata ad affrontarle.

Giovanni Dato -ilmegafono.org