“E di tanto in tanto io penso alla mia morte, e penso al mio funerale. Non ci penso in maniera morbosa. Di tanto in tanto mi domando: ‘Che cosa vorrei che di­cessero?’. Quel giorno mi piacerebbe che si dicesse: Martin Luther King junior ha cercato di amare qualcuno. Vorrei che diceste, quel giorno, che ho cercato di essere giusto sulla questione della guerra. E tutte le altre cose di superficie non conteranno. Non avrò denaro da lasciare dietro di me. Non avrò le cose belle e lussuose della vita da lasciare dietro di me. Ma io voglio avere soltanto una vita impegnata da lasciarmi alle spalle. Ed è tutto quel che volevo dire”. (Martin Luther King).

C’era una volta in America una fotografia in bianco e nero dove tutto era separato, i posti in un teatro e sugli autobus pubblici e, soprattutto, i posti nella vita di ogni giorno. Qualcosa è cambiato da quei tempi, ma non tutto e mai abbastanza. L’America, e non solo l’America, continua a essere quella fotografia dove la bellezza dei colori è ancora una discriminante. In quell’America, specchio fedele dell’ipocrisia della società bianca, la lotta contro la segregazione razziale era una strada tutta in salita e per affrontarla servivano il coraggio e la consapevolezza che quella salita sarebbe costata lacrime e sangue. Quella strada, e la forza necessaria per una lotta capace di cambiare quella società, è stata una straordinaria pagina di storia. Di quella lotta impari, il volto e il nome di Martin Luther King sono un simbolo.

Da una parte un’America che ha usato tutte le armi in suo possesso: leggi e potere, odio e violenza. Dall’altra parte un afroamericano che ha sfidato tutto quello che c’era da sfidare, capace di affrontare tutto senza mai fare un passo indietro. Le strade si possono percorrere in mille modi: in solitudine o accompagnati da un’idea che, un giorno alla volta, riesce a coinvolgere altra umanità. Quando questo succede, quella strada si riempie fino a non riuscire più a contenere tutti. Il modello di lotta scelto da Martin Luther King è un modello difficile da inseguire con costanza e fiducia, interamente costruito sulla non-violenza, come prima di lui aveva fatto il Mahatma Gandhi.

L’immagine di questo cammino, che più di altre è rimasta nell’immaginario collettivo, è sicuramente legata al 28 agosto 1963: al Lincoln Memorial di Washington, dopo la grande marcia per il lavoro e la libertà e per i diritti civili, Martin Luther King grida al mondo “I have a dream”. Non era facile inseguire questo sogno nell’America dove le croci accese dal fuoco del Ku Klux Klan erano la radice di un odio accompagnato dalla complicità del potere politico: meno di un anno dopo, nel giugno del 1964, il Ku Klux Klan assassina tre attivisti dei diritti civili degli afroamericani: James Chaney, Andrew Goodman e Michael Schwerner. Erano ragazzi di vent’anni: un bianco, un nero e un ebreo, testimoni dei giovani che lottavano per un’America diversa, migliore. Robert Kennedy era, in quel tempo, il ministro della Giustizia. L’indagine che ne seguì, nome in codice “Mississippi Burning”, dimostrò che l’assassinio era stato organizzato e portato a termine dallo sceriffo della contea e dai suoi complici, fra cui il predicatore Edgar Ray Killen, tutti appartenenti al Ku Klux Klan.

Martin Luther King ha avuto grandi compagni di viaggio nel suo cammino, persone che come lui hanno contribuito a rendere questo mondo più bello di quello che sembra. Nel dicembre del 1955 una donna sale sull’autobus per tornare a casa e cerca un posto per sedersi. Quella donna è nera e i posti riservati ai neri sono tutti occupati, allora decide di sedersi su un posto libero ma riservato ai bianchi. Viene invitata ad alzarsi, ma si rifiuta di obbedire. È un gesto di disobbedienza grave per l’America bianca: intervengono prima il controllore e, in seguito, viene la polizia che procede al suo arresto per essersi seduta su un posto “riservato ai bianchi”. Quella donna si chiamava Rosa Parks.

La notizia del suo arresto provoca un’ondata di proteste che culminano con la decisione dei neri di boicottare tutti i mezzi pubblici fino a che non venga cancellata la “spartizione dei sedili”. Saranno molti gli autobus completamente vuoti, perché anche molti bianchi aderiranno a questa forma di protesta non violenta che durerà a lungo: Martin Luther King sarà denunciato per aver “danneggiato l’azienda dei trasporti pubblici” ma, proprio quando arriva il giorno del processo, la Corte Suprema dichiarerà “illegale” la segregazione sugli autobus. È una vittoria, ma il prezzo sarà alto: una carica di dinamite esplode davanti casa di Martin Luther King, il quale subirà minacce e aggressioni, sarà arrestato ad ogni manifestazione per la pace. La strada in salita comincia a macchiarsi di sangue, e il sangue arriverà.

Le marce da Selma a Montgomery per il diritto al voto dei neri, nel 1965, segnano la storia delle lotte degli afroamericani. La prima marcia verrà ricordata come la “Domenica di Sangue” (Bloody Sunday): il 7 marzo 1965 centinaia di manifestanti neri sono caricati con estrema violenza dalla polizia. Le immagini di quegli scontri e di quella violenza fecero il giro del mondo. Una settimana più tardi ci fu la seconda marcia, ma un’ordinanza bloccò il corteo. Martin Luther King era alla testa del corteo nella terza marcia, il 16 marzo, ma fu solo il 25 marzo che decine di migliaia di persone arrivarono davanti al palazzo del governatore dell’Alabama, e Martin Luther King tenne uno dei suoi discorsi più belli. Il 6 agosto 1965 la discriminazione legale dei neri venne ufficialmente abolita per legge.

La strada continua e, per il pastore protestante nato ad Atlanta il 15 gennaio 1929 e diventato il leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani, arriva l’ultima salita. Nel mese di aprile dell’anno 1968 decide di essere a Memphis: c’è una marcia in sostegno degli spazzini in sciopero. Martin Luther King sta parlando con amici e collaboratori e i colpi di fucile sparati da una casa vicina può, forse, solo sentirli. È il 4 aprile dell’anno 1968. Il suo assassinio si aggiunge ai tanti che hanno riguardato donne e uomini che avrebbero potuto cambiare la storia degli oppressi. Il suo pensiero e il suo agire sono stati un segno, un esempio, perché chiunque mette al centro della propria vita l’idea di cambiare e rendere migliore questo mondo compie già una rivoluzione nel senso più nobile della parola. Il potere, a qualunque latitudine, ha sempre avuto paura degli esempi e dei miti e allora tende a normalizzarli e a lavorare perché siano dimenticati e mai accaduti.

Di Martin Luther King, oggi, resta ancora molto, a cominciare da quel suo “sogno” troppo semplice per essere capito dagli uomini e troppo elevato per essere apprezzato da tutti. Resta quella straordinaria cocciutaggine di credere nella forza della non-violenza e nel diritto all’uguaglianza. Resta la scomodità della sua posizione antimilitarista e fortemente critica nei confronti di ogni forma di imperialismo. Oggi, forse più che mai o forse come sempre, il mondo avrebbe bisogno di capire e apprezzare quel sogno, ma questa è la stagione dei sogni interrotti e degli esempi dimenticati nel cassetto della storia.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org