Il ministero della Transizione Ecologica, con l’avallo del governo Draghi, ha compiuto nei giorni scorsi una scelta ambigua, e per certi aspetti mistificatoria, attraverso il decreto che ha approvato e reso operativo il piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, il cosiddetto PITESAI. In altri termini ha codificato, dopo averne ottenuto l’adozione nella Conferenza Stato-Regioni del 16 dicembre scorso, le aree dove si continuerà a estrarre idrocarburi. Il piano, dopo la moratoria di 24 mesi, scaduta il 30 settembre 2021, che sospendeva l’avvio di nuove concessioni e i permessi di prospezione e ricerca, doveva servire a delimitare e ridurre le aree di sfruttamento delle fonti fossili per avviare il processo di transizione energetica, sostituendo progressivamente il petrolio e il gas con le energie rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idrogeno verde). Obiettivi fondamentali questi ultimi per la riduzione del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030 e per la completa decarbonizzazione entro il 2050, come previsto dal maxi piano europeo.

Risultati indispensabili per impedire il surriscaldamento globale del pianeta ed evitare prospettive sconvolgenti per l’umanità, delle quali i disastrosi cambiamenti climatici in atto sono i precursori. Questo è il percorso che l’Italia e i suoi governanti avrebbero l’obbligo di seguire. Anche il piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) si innesta in questo meccanismo virtuoso. Se questo dovrebbe essere il percorso, perché, allora, le scelte compiute dal ministro Cingolani vanno in direzione opposta e sono in netto contrasto con questi obiettivi? Il PITESAI sembra ridurre solo in apparenza le aree idonee per la ricerca e coltivazione di idrocarburi, escludendo alcune regioni (Valle d’Aosta, Trentino, Liguria, Toscana e in parte anche la Sardegna) nelle quali, però, non c’è mai stato alcun interesse estrattivo, o alcune aree come la laguna di Venezia e le isole Egadi, per le quali vige da tempo un divieto.

In realtà, però, sono 15 le regioni nelle quali sono state individuate aree idonee e, ad eccezione di una riduzione di una percentuale delle aree marine utilizzabili, sono ampie anche le zone di mare in cui si può aprire la corsa alla ricerca e alla coltivazione di nuovi giacimenti. Se ciò appare già grave per l’intera penisola, è ancor più aberrante per la Sicilia e per il suo mare. Il PITESAI, infatti, considera l’intera isola e il canale di Sicilia, fino all’estremo lembo sud, aree idonee per l’estrazione di idrocarburi, come risulta dalle mappe allegate allo stesso piano. Con malcelata ipocrisia, poi, si parla solo di gas, ma in realtà sarebbe molto difficile impedire a una società petrolifera di estrarre anche petrolio, qualora lo trovasse. Queste scelte, se attuate, determinerebbero pertanto lo sconvolgimento e la devastazione dell’isola, del suo mare e delle vaste aree di biodiversità. Il grande patrimonio naturalistico, paesaggistico, archeologico e storico, l’agricoltura di qualità, la bellezza dei siti Unesco, il volano turistico verrebbero compromessi.

Insieme ad essi verrebbe messo in discussione il lavoro di migliaia di persone e verrebbe messo in crisi irreversibile il futuro della marineria isolana, che costituisce ancora una parte importante delle attività di pesca del nostro Paese. Ancora più grave sarebbe il dissesto geologico in un territorio ad alta sismicità caratterizzato da grandi faglie pericolose come la ibleo-maltese, che attraversa da ovest a est la Sicilia, e le faglie che interessano anche la Sicilia occidentale. Senza escludere la zona ad attività vulcanica sottomarina, come l’area della cosiddetta isola ferdinandea, al largo di Sciacca. La scelta del piano, compiuta da Cingolani e dal governo, è un attentato al futuro della comunità siciliana e delle future generazioni, oltre a mostrare una logica utile solo a garantire i petrolieri e, in Sicilia, in particolar modo l’Eni, per continuare il suo business nell’upstream.

Nell’isola, infatti, sono già in corso 13 concessioni, delle quali 6 nel mare tra Licata e Pozzallo, con circa 80 pozzi, in parte attivi, altri appena attivati (Cassiopea e Argo l, a largo di Licata), altri in via di esaurimento. L’adozione del piano scongelerà ben ulteriori 12 permessi di ricerca sulla terraferma e in mare e potrà attivare circa 10/15 istanze di permessi di ricerca. Un piano, quindi, che appare solo come un saccheggio del territorio e del mare, e al quale peraltro era stato dato un parere fortemente negativo dal Comitato tecnico specialistico dell’assessorato regionale all’Ambiente. Parere di cui il ministero della cosiddetta Transizione Ecologica non ha tenuto alcun conto. Rimane il fatto che la Regione Siciliana, pur avendo acquisito e inoltrato il parere contrario sul PITESAI al ministero della Transizione Ecologica, nella riunione del 16 dicembre scorso avrebbe scelto di adottarlo. In realtà, il presidente della Regione Sicilia, Musumeci, dovrebbe avanzare ricorso al Tar per ottenere una revoca o una revisione.

La decisione del governo e del ministro Cingolani, con il decreto del 18 febbraio scorso, nella parte relativa alle misure per fronteggiare l’emergenza sul caro energia e sull’approvvigionamento di gas naturale a prezzo equo, ha evidenziato in modo lampante il prevalere di una logica che tende a prolungare il tempo di vita utile dei giacimenti di idrocarburi. Richiedere l’incremento delle estrazioni di gas da tutti i giacimenti, anche da quelli in via di esaurimento, con scelte discutibili come la iniezione e lo stoccaggio di CO2 per un incremento dell’estrazione del gas residuo, potrebbe certamente consentire un aumento della quantità di gas naturale nazionale. Ma si tratta di circa 2 miliardi di metri cubi che si aggiungerebbero ai 3,5 miliardi di mc di produzione corrente. Un totale di circa 5.5 miliardi di mc a fronte di un fabbisogno complessivo per il Paese di 75/78 miliardi. Una quota irrisoria che non avrebbe alcun effetto sul raffreddamento dei prezzi di mercato, ma sarebbe solo ad appannaggio, a un prezzo relativamente più basso, delle aziende energivore (acciaierie, cartiere, qualche branca dell’industria meccanica).

Lo stoccaggio di CO2 è una tecnica che può favorire il prolungamento della vita dei giacimenti, ma in realtà è sostenuta dalle compagnie petrolifere in quanto preludio per la produzione di idrogeno da fonti fossili (idrogeno blu), favorendo così l’estensione dell’uso del gas naturale, il più pericoloso per l’alterazione del clima. Questo percorso sembra essere uno dei punti più graditi all’Eni, che pensa di poterlo utilizzare nei suoi giacimenti più vecchi dell’alto Adriatico e non esclude che gli possa tornare utile anche nei giacimenti inattivi del Canale di Sicilia. Scelte che sono in rotta di collisione con l’obiettivo della eliminazione dei combustibili fossili entro il 2050 per preservare un futuro sostenibile per il pianeta. Ciò che manca nella strategia del ministero della Transizione Ecologica e del governo è una forte accelerazione dello sviluppo ordinato, razionale, rapido e esteso delle energie rinnovabili, non invasive e non speculative, dell’efficientamento e del risparmio energetico.

Ciò che emerge in questo momento, in particolare nel ministro Cingolani è una logica conservativa del sistema energetico esistente, una nostalgia verso il nucleare, una insopportabile supponenza e la mancanza del coraggio del necessario confronto. Trova comodo, il ministro, rifugiarsi per il suo monologo ambiguo in trasmissioni televisive edulcorate, come ad esempio Restart di Rai 2 dove, nella puntata di mercoledì 22 febbraio, in modo supino, redazione e conduttrice, con collegamenti accomodanti (vedi Rampini), lo hanno sottratto al contraddittorio con il mondo reale delle comunità e dei territori. Ossia coloro che pagheranno sulla loro pelle le scelte compiute dal ministro e dal governo. Il solito scenario che ha già prodotto disastri nella storia industriale e ambientale di questo Paese e della Sicilia.

Salvatore Perna -ilmegafono.org