Anche se singhiozzante e ancora molto incerta, la riapertura dei musei milanesi non risparmia certo le tanto aspettate gioie. Era circa un anno che non mettevo piede in un museo, cosa quasi innaturale per me in quanto fino a prima di questa sventurata pandemia era un luogo essenziale per la mia esistenza. È da circa un anno che fatico ad oltrepassare i confini del quartiere in cui vivo per motivi che non siano di dovere, figuriamoci andare dall’altra parte di Milano per vedere una mostra. Ma, come sempre, l’esperienza che vivi uscendo dalla comfort-zone è sempre la più appagante. Ed entrare nel fantastico mondo di Enzo Mari con un nodo in gola e le gambe molli,  è di sicuro una sensazione incredibile.

Artista, designer, critico, teorico, ma soprattutto sognatore, Enzo Mari entra a muso duro tra le personalità che hanno reso grande la nostra cultura nel XX secolo. Questa retrospettiva mette in mostra molti progetti e lavori inediti che Mari aveva donato al CASVA (Centro di Alti Studi sulle Arti Visive del Comune di Milano) dando ordine che avrebbero potuto accedere all’archivio solo dopo 40 anni dalla donazione. Questo perché Mari credeva fortemente che, solo dopo questo lasso di tempo, le nuove generazioni di designer sarebbero state nuovamente abbastanza pure da poter riprendere il vero significato delle cose e fare un uso consapevole dei suoi progetti.

Superfluo elogiare il sublime lavoro compiuto da Hans Ulrich Obrist e Francesca Giacometti, che per anni con Mari hanno collaborato attivamente e sono egregiamente riusciti a raccontare circa 60 anni di attività del Maestro, illustrando sapientemente la multidisciplinarietà della sua produzione: dai lavori di Arte Cinetica e Programmata degli anni ‘50 e ‘60, agli allestimenti della mostra “Enzo Mari. L’arte del design”, tenutasi alla GAM di Torino nel 2008 e curata da Mari stesso con la collaborazione della Giacometti; passando per il Mari illustratore e grafico di editoria, insieme al Mari scenografo, alle centinaia di sedie e lampade che hanno invaso le case di milioni di italiani e non, fino al mai realizzato “Affaire Gela”, visionario progetto per la riqualificazione di un quartiere periferico di Gela (CL). Ed è stata proprio in questa sezione, nell’Affaire Gela, che ho trovato forse lo sketch che più mi ha colpito: c’è uno schizzo del Duomo di Milano, corredato da un pensiero critico fugace che recita “nessun milanese sente la sua città come luogo di vita”.

Ed è su questa frase che mi vorrei concentrare. Perché in questa frase si racchiude tutta l’angoscia del pensiero contemporaneo. E non parlo solo di Milano, che malgrado tutto mi ospita e mi dà una motivazione per alzarmi tutte le mattine. Parlo anche di Barcellona, città in cui ho vissuto 3 anni. Parlo delle testimonianze dirette portatemi dagli amici da Londra, Berlino, Amsterdam, Praga, New York, Sidney e la maggior parte delle grandi metropoli. Del concetto in sé di metropoli che sta pian piano inglobando anche le cittadine di provincia, del modello metropoli che abbiamo svenduto in ogni angolo del globo e che, alla prima difficoltà, ci si sta ritorcendo contro.

Non è una novità che il modello metropoli stia iniziando a perdere di valore, perché nel mercato sta tornando alla rimonta il modello qualità della vita. E come darci torto! Chiunque possa permetterselo, sta pian piano spostandosi verso l’hinterland, lo smartworking porta tante persone a tornare nelle cittadine e nei paesi natali, si prediligono i piccoli centri e le zone più a contatto con la natura. Un’inversione di marcia che spero continui, alla riscoperta di un sentimento che noi al sud non abbiamo mai perso: casa come luogo della vita. Perché a Milano, a Londra, a Praga, a Barcellona, è veramente difficile trovare un autoctono. Perché le metropoli servono a fatturare, non a vivere. La vita si modella intorno al dovere, agli orari, gli appuntamenti, le scadenze, i bei negozi, la passeggiata in centro, ma la vita si vive fuori dalla metropoli. “La casa fuori, la fabbrichetta fuori, le zone pedonali come Disneyland, il turismo, la metastasi del terziario, internet, fuggire, pendolari, il box”. In 9 definizioni tutta Milano. Ma anche tutta Barcellona, tutta Londra etc.

Nonostante le nostre città siano spesso sporche, degradate, non curate e ai limiti dell’ingestibile, il nostro concetto di casa difficilmente cambia. Anche se fuggiamo e poi torniamo, anche se fuggiamo e poi restiamo, continuiamo instancabili di ricreare altrove quello che abbiamo lasciato però con condizioni migliori. Ma forse è arrivato il momento di poter iniziare a costruire queste condizioni migliori senza dover più fuggire, magari tornare, e approfittare di questa ricostruzione per rendere l’Affaire Gela, quello splendido modello, applicabile su scala, l’ennesimo progetto riuscito del grande Enzo Mari.

Sarah Campisi -ilmegafono.org