Sono ben 365 i comuni sciolti per mafia dal 1991 ad oggi e 14 di questi solo nell’ultimo anno. Numeri impressionanti, che testimoniano un radicamento mafioso che non risparmia neanche una fetta del nostro Paese, visto che i casi includono quasi tutte le province e le realtà italiane. A rivelarlo è il dossier “Le mani sulla città”, presentato da Avviso Pubblico la scorsa settimana, un dossier che mostra dati allarmanti che delineano uno scenario preoccupante. Innanzitutto i numeri: come già accennato, sono stati 365 i decreti di scioglimento nel corso degli ultimi 30 anni (274 se si considerano soltanto le “prime volte”). Le ragioni sono tante: appalti truccati, voto di scambio, corruzione e affidamenti di servizi pubblici a soggetti vicini ai clan.

Una vera e propria egemonia mafiosa che ha inquinato e peggiorato non solo la vita amministrativa degli enti, ma anche e soprattutto quella dei cittadini. Dal 1991 (anno in cui venne approvato il decreto che permette lo scioglimento delle amministrazioni per motivi mafiosi), non passa mese senza che vi sia un comune sciolto per mafia: da Nord a Sud, infatti, sono poco meno della metà le regioni immuni ai decreti di scioglimento, mentre altre sono addirittura recidive (persino 3 volte nel caso di alcune amministrazioni). Ad essere coinvolte sono state Calabria, Campania, Sicilia, Basilicata, Puglia, Liguria, Piemonte, Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna e Valle d’Aosta, con la prima che raggiunge il primato di ben 15 anni consecutivi con il più alto numero di decreti di scioglimento. Ma perché il numero dei comuni sciolti per mafia non tende ad arrestarsi?

Tra le motivazioni più note e frequenti c’è sicuramente una preoccupante collusione delle mafie con la politica e la pubblica amministrazione. Dal dossier è infatti emerso come vi sia stato un po’ dappertutto un forte sostegno elettorale da parte dei clan mafiosi, premiati, in cambio, con una presenza massiccia nelle attività del territorio e un “lasciapassare” praticamente illimitato. Addirittura, nel caso di Rosarno (RC), si parla di “vera e propria partecipazione dei clan alla scrittura del programma elettorale, a dimostrazione di quanto pervasivo fosse il rapporto”. Oppure c’è il caso di Carovigno, in Puglia, dove poco dopo le elezioni ad una candidata non eletta (e parente di esponenti di un clan) sarebbe “stata affidata l’organizzazione di eventi nel centro storico della città”. Insomma, l’ennesima dimostrazione che non esiste una mafia senza l’appoggio della politica (e viceversa).

“Un rapporto mafia-politica – ha affermato Enzo Ciconte, storico delle organizzazioni criminali, in occasione della presentazione del dossier – che risale in pratica già all’800”. Ovviamente, “i rapporti sono cambiati nel tempo, arrivando a vedere i gruppi criminali in posizione predominante rispetto alla politica stessa”. Ma dov’è che la mafia riesce a dominare con più facilità? Premesso che lo scopo è quello di infiltrarsi nell’economia locale, i clan tendono principalmente ad interessarsi all’intero settore dell’edilizia e dell’urbanistica, passando per la gestione dei rifiuti e di servizi specifici come quelli funebri. Il tutto con il beneplacito, come visto, di dipendenti comunali e massime cariche locali, per un ritorno economico e politico che fa comodo a tutti i soggetti coinvolti.

A trent’anni di distanza, è evidente quindi come anche da un punto di vista legislativo vada cambiato subito qualcosa. Secondo Vittorio Mete, docente di sociologia all’Università di Torino, “lo scioglimento dei comuni per mafia è un pezzettino della politica pubblica contro le mafie, che va letto come un tassello della strategia più ampia che lo Stato ha messo insieme negli ultimi decenni per contrastare le infiltrazioni”. Tuttavia, questo non basta. “La legge attuale – ha continuato Mete – ha una natura preventiva molto bassa, perché alla lunga gli scioglimenti godono di un deficit di popolarità e di consenso. Quello della legittimità percepita è un problema che dobbiamo porci, perché lo scioglimento del comune non rimedia ad un meccanismo di raccolta del consenso che non è sano e che non si ripara in pochi mesi”.

Per Ciconte, invece, “c’è il grosso problema dei commissari spesso inadeguati ad affrontare la situazione e quindi questo crea insofferenza nella cittadinanza”. Proprio per questo motivo, tra le tante proposte di modifica presentate da Avviso Pubblico, c’è quella di fornire maggiori strumenti (e sempre più efficaci) ai commissari, puntando anche sull’informazione e su un coinvolgimento più ampio della cittadinanza. Un coinvolgimento che passa da una maggior trasparenza (altro punto sottolineato nel dossier), troppo spesso ignorata o data per scontata. Insomma, la situazione è grave e il fatto che 30 anni non siano bastati a risolvere il problema lo dimostra chiaramente. Non solo: davanti ad amministrazioni pubbliche “recidive”, viene da pensare che la mafia si faccia quasi beffa dello Stato e goda di un’immunità paurosa. Urge quindi un chiaro segnale di svolta in questo senso e una presa di posizione dura, concreta, fatta di provvedimenti, e non di parole spesso superflue, che risolva una volta su tutte il problema delle infiltrazioni mafiose nella gestione degli enti locali.

Giovanni Dato -ilmegafono.org