Il 4 novembre avrebbe compiuto 66 anni, da festeggiare con la famiglia, i figli, i nipoti, nell’atmosfera tipica del novembre siciliano, tra i sapori e i profumi che invadono le strade nei giorni precedenti la festa di San Martino. E magari avrebbe parlato con i familiari di ciò che è l’Italia oggi, delle cose da cambiare, delle vergogne da svelare. E sicuramente avrebbe scritto uno dei suoi pezzi di verità, di denuncia. C’è una consuetudine che accomuna gli esseri umani, soprattutto quando si parla di vittime di mafia o di terrorismo: ricordare qualcuno nel giorno della sua morte, nell’anniversario dell’assassinio, della scomparsa. Una scelta naturale, automatica, perché è ciò che emotivamente ti colpisce di più, ti fa arrabbiare di più. Qualche volta però, ti viene da pensare che non sia logico celebrare la memoria partendo sempre dalla fine, proprio perché in molti casi la fine non esiste ed è un concetto molto relativo.

Il 4 novembre, Beppe Alfano,  giornalista siciliano che ha sfidato mafia e malaffare armato solo di penna e di verità, avrebbe celebrato il suo 66esimo compleanno. Ma la sua vita si è fermata prima, all’età di 47 anni, a quella maledetta sera di gennaio del 1993. Aprendo la pagina facebook della figlia Sonia, parlamentare europeo e donna impegnata da tempo nella lotta alla mafia, nella difesa dei diritti dei familiari delle vittime di mafia e nella ricerca di giustizia per il padre (i mandanti non sono mai stati trovati e processati), la sera del 4 novembre si leggeva il messaggio di una figlia che non ha mai smesso di lottare, nel ricordo vivo e presente del papà. Un messaggio semplice, dove amarezza e dolcezza si mischiavano.

Mi sono fermato a pensare, come sempre, quanto sia diversa la percezione della scomparsa tra chi ha perso un esempio e chi ha perso anche un padre, un familiare. È la ragione per cui non ho mai tollerato le critiche dure ai parenti delle vittime di mafia o di terrorismo, rispetto  a scelte o comportamenti differenti da quelli che magari “il movimento antimafia” si attendeva. Perché c’è un limite, c’è quella linea spessa di demarcazione tra la lotta e il dolore, tra la dimensione pubblica e quella intima, privata, in cui nessuno può permettersi di entrare.

Da giornalista penso ad Alfano, così come a Fava, Rostagno, De Mauro, Francese e tanti altri, e non riesco a soffermarmi sulla loro morte fisica, non ci sono mai riuscito. Perché ho sempre pensato fortemente che la penna sia l’unico elisir per l’immortalità. Non si muore mai veramente fino a quando le tue parole verranno lette e conosciute. E se sono parole cariche di verità, di onestà, di umanità non smetteranno mai di scuotere, spronare, incitare alla lotta, al cambiamento, alla denuncia. Ciò che conta, quando fisicamente non puoi più scriverne altre, è che qualcuno si impegni affinché si possa continuare a leggere e, leggendo, a svelare i contorni della società di oggi, che è cambiata, ma che mantiene ancora intatti molti suoi vizi. Per questo preferirei celebrare il giorno di nascita di chi ha sfidato la mafia, come un evento senza il quale oggi saremmo tutti meno liberi, meno forti, più soli. Ed è per questo che ritengo che la morte non sia nulla di definitivo, ma solo un passaggio.

Poi, guardando ed ascoltando i familiari delle vittime immagino quanto, ogni giorno, prevalga l’assenza fisica, il dolore per un affetto che ti è stato strappato, la voglia di avere accanto una persona che qualcuno ha eliminato solo perché faceva il proprio dovere, quello che altri non facevano. Rabbia, chissà quanta rabbia ti esplode dentro. La rabbia, mista ad amore, di chi sceglie di continuare a lottare, come fa Sonia ogni giorno, affrontando mille difficoltà, per non darla vinta a chi ha pensato che con le pallottole si potesse fermare il coraggio di un uomo libero. No, quel coraggio civile è vivo nelle parole conservate e nel valore dell’esempio, oltre che nei gesti e nell’agire di chi continua a combattere e a diffondere idee di giustizia. Forse tutto questo, almeno in parte, riempie quel vuoto fisico che la morte produce. E forse è quello che ti spinge a muovere le gambe e ad urlare anche quando sei stanco di farlo. A noi il compito di non dimenticare e di non lasciare solo chi non si arrende.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org