“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante nel davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre“. (Peppino Impastato)

La vita come la risacca del mare, un’onda forte che si infrange sugli scogli ma ritorna, testarda, più forte e più alta di quella che è stata respinta. La bellezza, come unica possibilità di riscatto e di lotta contro tutto quello che si abbatte sulla dignità e sulla vita delle persone: la mafia e la politica compiacente, il potere colluso o incapace di essere dalla parte giusta della strada. E quella parte giusta Peppino la conosceva, perché la sua storia era nata dalla parte sbagliata della strada. Altri avrebbero continuato a camminare su quella strada, era la più facile e in gran parte sarebbe stata in discesa: Cinisi, in provincia di Palermo, una famiglia mafiosa alle spalle, in cui Cesare Manzella era stato un uomo di spicco prima di essere ucciso quando Peppino era ancora un ragazzo. Perché cambiare strada? Perché c’è una bellezza da inseguire, da costruire un giorno alla volta, voltando le spalle a quella “montagna di merda” che è la mafia che abita anche dentro le mura di casa.

Quella bellezza si insegue solo se si crede nell’idea, nell’utopia. E su quell’idea Peppino costruisce il suo percorso e la sua bellezza. La lotta alla mafia passa inevitabilmente attraverso l’impegno politico e in quell’impegno si mescolano voglia di vivere, dignità, coraggio e poesia. Nasce una radio a Cinisi, si chiama “Radio Aut” e l’anno è il 1977. È una stagione difficile e pesante per tutto il Paese. Per molti quella stagione viene ricordata solo come quella degli anni di piombo, ma è un ricordo sbagliato e superficiale: si poteva e si doveva sognare in quella stagione, era un diritto per un’intera generazione. Il cammino di Peppino è andato oltre quei “Cento passi” per cui oggi viene ricordato. Ed è andato oltre anche quella radio con la quale cercava di risvegliare una comunità rassegnata, quasi ipnotizzata dalla violenza della mafia e del potere politico, rappresentato da quella Democrazia Cristiana che tutto controllava e gestiva, collusa con quella stessa mafia che in troppi hanno considerato come l’unico male della Sicilia, ma che non avrebbe mai potuto essere quel “male” se non avesse avuto alle spalle le protezioni e le complicità che l’hanno resa razza padrona.

Peppino questo lo aveva capito e, con tutta la forza delle sue idee, aveva provato a fornire alla sua terra quell’arma “contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”. Cambiare la società, spostare quegli equilibri politici che stringevano la Sicilia e il Paese intero in un abbraccio velenoso e mortale, restituire alle persone quel desiderio di libertà del pensiero e delle scelte. La sua lotta non è stata solo una lotta alla mafia, è stata molto di più: una lotta contro un intero sistema che ha sempre usato la mafia per il controllo del territorio e della libertà di vivere e di scegliere il proprio destino, come garante del proprio potere politico e sociale. Difficile spostare gli equilibri e vincere la paura nella terra del Gattopardo, perché quel Gattopardo ha ampliato i confini e non si limita alla sola Sicilia. Ma quell’isola è la sua terra e in quella terra Peppino vive e da lì prova a portare quella “bellezza” che si sposa con la ribellione e l’utopia. Tutto questo si chiama essere Rivoluzionario, e la prima rivoluzione nasce dentro di sé, con il cambiamento di rotta davanti ad una strada scritta da altri e che si ha il coraggio di rifiutare.

Nasce trovando la forza di stracciare i legami con un pezzo importante della propria famiglia, quando quella famiglia diventa un cappio che soffoca ogni sogno di libertà, propria e altrui. Nasce dall’amore che resta intatto per quella madre il cui nome, Felicia, sembra una beffa crudele del destino. Anche questi sono i “cento passi” di Peppino Impastato e nessuno di noi potrà mai sapere quanta fatica e quanto dolore possano essere costati a Peppino. Cento Passi, uno ogni giorno, perché nella sua vita l’idea di una società da cambiare prende forma un giorno alla volta, dal giornale fondato a metà degli anni ‘60, “l’Idea Socialista”, all’impegno militante nei movimenti in prima fila accanto a contadini espropriati delle terre utili per l’ampliamento dell’aeroporto. Un’idea della politica libera, dal basso, cresciuta nelle formazioni di quella Sinistra extra-parlamentare nata negli anni del ‘68 e che lo portò a candidarsi alle elezioni comunali di Cinisi nelle liste di Democrazia Proletaria.

E poi quell’abbraccio con ogni forma capace di liberare e insegnare cultura e bellezza, voglia di vivere: la musica in piazza, le feste e i dibattiti, il teatro e l’incontro, la poesia. Non può esistere un’anima rivoluzionaria senza dolcezza. Ernesto Che Guevara diceva che “bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza”. Se avesse avuto la possibilità di conoscere Peppino Impastato, avrebbe acceso un sigaro fumandolo lentamente, per fermare il tempo e assaporarlo. È la bellezza, così semplice da capire ma così temuta da chi non può e non vuole perdere il bastone del comando. Peppino Impastato aveva solo trent’anni quando la mafia lo uccide nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, lo stesso giorno in cui, a Roma, viene trovato il corpo di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse. Questo permetterà alla mafia e allo Stato di mettere la morte di Peppino all’ultimo angolo della soglia di attenzione di un Paese sfiduciato e impaurito. Peppino muore e la campagna elettorale per le elezioni a Cinisi continua. Molti furono i cittadini che, in una sfida che non poteva morire con lui, votarono comunque il nome di Peppino sulla scheda elettorale.

Subito dopo la morte di Peppino la macchina del fango si rovescia con tutta la sua forza sul suo nome e sono in tanti a guidare quella macchina: dalle istituzioni locali fino ai livelli più alti dello Stato, forze dell’ordine e magistratura. Gran parte della stampa che conta, getta la sua razione di fango, avvalorando la tesi della “preparazione di un atto terroristico di cui l’attentatore sarebbe rimasto vittima”. Ma a volte capita che la macchina del fango non fa i conti con la variabile che non accetta la rassegnazione: quella variabile ha il volto degli amici e dei compagni di Peppino, ha il nome di un fratello, Giovanni. Ha, soprattutto, un nome che è già bellezza: Felicia, sua madre. L’insieme di queste variabili riscrive quella storia che lo Stato e la mafia pensavano di chiudere nel silenzio e nel cassetto dimenticato della vita. C’era una storia giudiziaria da riscrivere, un muro di gomma da abbattere; c’era un banco degli accusati su cui non era Peppino a dover salire, ma altri.

Servivano coraggio, pazienza e tanto amore per non arrendersi e continuare a lottare, loro hanno sempre avuto tutto questo. La parola fine a quella storia giudiziaria arriva l’11 aprile 2002, con la condanna all’ergastolo del boss mafioso Gaetano Badalamenti. Ci sono voluti ventiquattro anni. Hanno vinto, alla fine, e quella vittoria è un fiore nato dal seme che Peppino ha lanciato al vento quando ha scelto una strada diversa da quella che era stata preparata per lui. Felicia Bartolotta è morta il 7 dicembre 2004. Qualche anno più tardi, nel 2011, la Procura di Palermo ha riaperto le indagini sui depistaggi. La memoria di Peppino Impastato resta viva, l’Associazione Casa Memoria “Felicia e Peppino Impastato” e l’Associazione “Peppino Impastato” la portano avanti ogni giorno, perché “Cento passi” sono una strada lunga, e ogni giorno bisogna continuare quel cammino.

C’era una volta un ragazzo “nato nella terra dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio. Negli occhi si leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare”. Così cantano i Modena City Ramblers. Peppino era tante cose in un solo corpo e in un solo cuore, era figlio di quella generazione che sognava di cambiare il mondo: amava la vita e la bellezza, amava il teatro e la poesia, era un giornalista, un attivista e militante comunista. Era un poeta.

Fiore di campo nasce
sul grembo della terra nera,
fiore di campo cresce
odoroso di fresca rugiada,
fiore di campo muore
sciogliendo sulla terra
gli umori segreti.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org