È una tragica storia quella di Maria Chindamo, giovane imprenditrice calabrese (ne avevamo già parlato poco più di un anno fa) di cui si sono perse le tracce la mattina del 6 maggio 2016 quando, davanti ai cancelli di un terreno agricolo a lei appartenuto, fu ritrovata solo la sua vettura, un suv bianco, con evidenti macchie di sangue ed il motore ancora acceso. Inspiegabilmente le telecamere di sorveglianza posizionate proprio di fronte al luogo della sparizione non avevano ripreso nulla quel giorno. Inoltre, Maria era scomparsa in una data assai particolare: l’anniversario del suicidio del marito, Ferdinando Punturiero, che non riusciva a rassegnarsi alla fine del loro matrimonio. Una circostanza troppo particolare per essere catalogata come mera coincidenza, specialmente in una zona come quella dell’entroterra calabro, permeato a tutt’oggi da tradizionali “valori” maschilisti che la ’ndrangheta porta avanti e promuove.

Da subito si è fatta strada tra gli inquirenti e tra i familiari della Chindamo l’ipotesi che la donna fosse l’ennesima vittima di “lupara bianca”, ossia di uccisione per mano mafiosa con contestuale occultamento del cadavere. Maria, con ogni probabilità, all’epoca della sparizione, è stata giudicata, da qualche boss della zona, colpevole di una condotta amorale, semplicemente per essersi arrogata il diritto di lasciare il proprio marito, di essere una donna felice, libera e realizzata. Tanto è sufficiente, nel nostro “Belpaese” per perdere la vita atrocemente. Lo scorso 6 maggio, in occasione del quarto anniversario della sparizione di Maria, suo fratello, Vincenzo Chindamo ha affidato ad un post su facebook tutto il proprio dolore e la propria rabbia per essere stato condannato ad una “quarantena affettiva” in assenza del sorriso dell’amata sorella.

“Criminali – ha scritto Vincenzo – non siete stati ancora scoperti. Il mondo giusto prova vergogna e schifo per voi. Le vostre debolezze, la vostra scelta di stare dalla parte del male sono e saranno il vostro peccato e la vostra vergogna”. “Pentitevi e confessate – ha aggiunto l’uomo – si vergognerebbero di voi anche i vostri stessi cari”. Le indagini sulla sparizione di Maria hanno avuto qualche intoppo, sono state caratterizzate da arresti e scarcerazioni, da deposizioni testimoniali un po’ contrastanti e anche da documenti particolari, come il testamento del suocero posto come “interessante” all’attenzione degli inquirenti, da parte di Vincenzo Chindamo e dal suo avvocato. Recentemente sembrerebbero emerse tristi novità sul rapimento della giovane donna e sul suo omicidio. Secondo quanto dichiarato agli inquirenti dal collaboratore di giustizia Antonio Cossidente, venuto a conoscenza di questa vicenda tramite i racconti del suo compagno di cella Emanuele Mancuso, Maria sarebbe stata rapita e poi brutalmente uccisa per essersi rifiutata di vendere i propri terreni agricoli al confinante, Salvatore Ascone, affiliato ad un potente clan della zona e conosciuto come “u pinnularu”.

Proprio Ascone era stato arrestato nei mesi precedenti con l’accusa di aver manomesso le telecamere di sorveglianza della zona, ma scarcerato dal tribunale del Riesame. “Mancuso – ha dichiarato il collaboratore di giustizia – mi disse che per la scomparsa della donna, avvenuta qualche anno fa, c’era di mezzo questo pinnularu che voleva acquistare i terreni della donna, in quanto erano confinanti con le terre di sua proprietà”. “Emanuele Mancuso – continua la deposizione di Cossidente – mi ha detto che in virtù di questo l’ha fatta scomparire lui, ben sapendo che, se le fosse successo qualcosa, la responsabilità sarebbe certamente ricaduta sulla famiglia del marito della donna, poiché l’uomo, dopo che si erano lasciati, si era suicidato”. Il collaboratore di giustizia ha inoltre fatto chiarezza sul mancato ritrovamento del cadavere della Chindamo, confessando di aver appreso dal suo compagno di cella che il suo corpo era stato distrutto con il trattore o dato in pasto ai maiali.

Queste orribili rivelazioni hanno scatenato la reazione di Federica, la giovane figlia di Maria, che ha detto di aver immaginato la scena dell’uccisione della madre e che è stato terribile. “Noi – ha dichiarato la ragazza – abbiamo bisogno della verità e ci appelliamo alla parte buona della Calabria, che esiste”. Esiste certamente una Calabria buona, onesta e sana, ma ne esiste anche una eccessivamente maschilista, retrograda e prevaricatrice che trova sbocco nella ’ndrangheta e nelle sue visioni primitive. Maria Chindamo è solo l’ennesimo nome che si aggiunge ad un lunghissimo elenco di donne calabresi uccise per il proprio stile di vita, per la propria vita amorosa, per essersi permesse di opporsi al volere di un uomo, di “tradire la famiglia”, o anche solo per essersi rese troppo disponibili nelle chat room o nei social.

Esiste una parte della Calabria che cresce le proprie figlie nella paura, privandole di una vera identità, sacrificandone lo spirito, l’indole e la felicità in nome di una visione maschilista e misogina che sembra stridere eccessivamente con la società in cui viviamo. Una mentalità retrograda che deve necessariamente essere distrutta dalle donne calabresi e da quelle istituzioni che possono poggiarsi anche su progetti già esistenti per liberare le donne dalla minaccia della ’ndrangheta e del maschilismo, in modo che le donne stesse possano riappropriarsi della propria libertà. Servono atti di coraggio e di indipendenza, ma anche tutele e opportunità.

Anna Serrapelle- il megafono.org