Ufficialmente viviamo in una società “civile”, moderna e fortemente scolarizzata, ci raccontiamo che non ci sono differenze tra uomo e donna, che abbiamo gli stessi diritti, le medesime opportunità e ci sorprendiamo un po’ quando ci imbattiamo in notizie di “violenza di genere ” o di femminicidio (sebbene siano reati tutt’altro che sporadici nel nostro Paese). Eppure la verità è che nell’Italia attuale accadono ancora episodi raccapriccianti in fortissima contrapposizione con tutto ciò che può essere considerato civile o moderno. Le storie di Maria Chindamo e Francesco Vangeli ne sono due esempi piuttosto recenti. Maria Chindamo, imprenditrice di Vibo Valentia, sparì il 6 maggio del 2016 in prossimità della propria azienda agricola. Fu ritrovato solo il suo Suv bianco con la fiancata imbrattata di sangue.
Da subito quella sparizione apparve preoccupante e singolare: nessuno aveva notato nulla, nemmeno l’operaio già presente in azienda. Le telecamere, posizionate proprio di fronte al cancello del terreno agricolo, in maniera del tutto incomprensibile non avevano ripreso l’aggressione alla donna e, cosa ancor più sconcertante, Maria era sparita in una data singolare. Esattamente un anno prima, il 6 maggio 2015, infatti, suo marito Ferdinando si era tolto la vita perché non riusciva ad accettare la fine della loro relazione. Un dettaglio davvero troppo particolare per poterlo ascrivere a mera coincidenza, specie in un territorio come quello di Vibo Valentia, fortemente permeato dai disvalori della ‘ndrangheta secondo i quali è inconcepibile l’idea di “donna libera” che lascia il marito e ricomincia da capo.
Recentemente, le indagini sulla sparizione della Chindamo hanno registrato una svolta con l’arresto di tre uomini accusati di aver manomesso il servizio di video sorveglianza davanti alla sua azienda e di aver dunque contribuito materialmente alla sua aggressione: si tratta di Salvatore Ascone, affiliato al clan Mancuso, suo figlio (che nel 2016 era ancora minorenne) ed un operaio polacco. Eppure, nonostante questa svolta investigativa, ad oggi non è stato possibile scoprire dove si trovi il corpo di Maria, così da poterlo consegnare ai suoi cari. Anzi si fa strada tra gli inquirenti l’ipotesi che non sarà possibile recuperarlo perché probabilmente è stato dato in pasto ai maiali.
A primo impatto sembra essere completamente diversa la storia di Francesco Vangeli, un giovane ventiseienne di Filandari (in provincia di Vibo Valentia). La sera del 9 ottobre 2018, Francesco uscì per un incontro di lavoro e se ne persero le tracce. La sparizione fu subito considerata dagli inquirenti un caso di lupara bianca, ossia di delitto senza corpo, e le indagini, portate avanti tramite un’attenta analisi del traffico telefonico del giovane scomparso ed attraverso innumerevoli intercettazioni ambientali, hanno portato, nelle scorse settimane, all’arresto dei due fratelli Francesco e Antonio Prostamo, nipoti del temuto boss Nazzareno. Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, Francesco sarebbe stato giustiziato a causa dell’amore per una ragazza, Alessia, contesa tra lui ed il giovane malvivente Antonio Prostamo, già ai domiciliari.
Nei mesi immediatamente precedenti alla sparizione di Francesco, infatti, l’ossessione per quella ragazza e per la possibile paternità del bambino che lei aspettava aveva portato Prostamo a mandare numerosi messaggi minatori al suo rivale: “Ti faccio sciogliere, per un porco come te rompo pure i domiciliari”. Evidentemente Francesco, forse troppo innamorato della propria ragazza per comprendere la vera entità dei guai in cui era finito, non aveva assecondato le richieste del boss siglando la propria condanna a morte. Una morte piuttosto efferata. Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, i fratelli Prostamo avrebbero ferito Vangeli con un colpo di fucile, lo avrebbero poi infilato, ancora vivo ed agonizzate, in un sacco nero per poi gettarlo nelle acque del fiume Mesima. Due delitti diversi che sembrerebbero condividere solo le dinamiche di svolgimento (l’essere cioè due episodi di lupara bianca) e lo scenario in cui sono avvenuti (il territorio di Vibo Valentia). Eppure, osservandoli con maggiore attenzione, esiste un altro fattore che accomuna le due storie, il più determinante e sconcertante: il movente dei delitti.
Gli omicidi di Maria e di Francesco sono stati causati da un certo tipo di mentalità, tipica della ‘ndrangheta, che assegna alla donna il ruolo di oggetto, di “trofeo”, negandole la possibilità di “essere libera” o semplicemente individuo. Una mentalità che Maria Chindamo, lasciando il marito e concedendosi la possibilità di un nuovo amore e di una nuova vita, aveva sfidato, quasi impunemente. Così come si era opposto Francesco Vangeli difendendo il proprio amore per una ragazza che purtroppo per lui piaceva al boss, anzi che secondo il boss gli apparteneva: “Lei è mia”, scriveva nei messaggi Prostamo. Negli anni sono stati innumerevoli gli episodi di donne calabresi “fatte sparire” o punite perché volevano cambiare vita e perché con i loro atteggiamenti contravvenivano alle leggi della ‘ndrangheta: da Lea Garofalo, uccisa per aver lasciato e denunciato il compagno boss in cerca di un futuro migliore per la propria figlia, a Francesca Bellocco, uccisa dal figlio a causa di una relazione extraconiugale.
Decine e decine di donne sterminate per essersi arrogate il diritto di seguire i propri sentimenti o le proprie ambizioni o semplicemente per affrancarsi dalla cappa e dalla bruttezza degli ambienti mafiosi, uccise da una mentalità retrograda e maschilista. Una mentalità che però, purtroppo, trova spesso terreno fertile in alcune donne che la assecondano con rassegnazione, donne come Alessia, che la stessa sera della sparizione di Francesco, si è trasferita a casa del suo assassino. Finché le donne accetteranno di essere “trofei”, finché rinunceranno alla propria libertà, finché non capiranno che la normalità non è essere “di qualcuno” ma semplicemente essere “qualcuno” questa scia di violenza e soprusi continuerà tristemente a dilagare.
Anna Serrapelle-ilmegafono.org
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