La Corte penale internazionale (CPI) ha chiesto l’arresto per Benjamin Netanyahu e per il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, con l’accusa di aver compiuto “crimini di guerra e crimini contro l’umanità” nella Striscia di Gaza. Il mandato di arresto, con le stesse motivazioni e per i crimini commessi il 7 ottobre 2023, è stato emesso anche nei confronti dei leader di Hamas: Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Ismail Haniyeh e Diab Ibrahim Al Masrim. La competenza della CPI, complementare a quella degli Stati, le dà il diritto di intervenire quando gli stessi Stati non agiscono – per scelta o per impossibilità – per punire i crimini che colpiscono la comunità internazionale: genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, a cui si aggiunge il crimine di aggressione (Statuto di Roma della Corte penale internazionale).

Questa decisione ha scatenato a livello internazionale una “tempesta perfetta”: per gli Stati Uniti e per l’Europa, la richiesta di arresto dei leader di Hamas in campo internazionale era qualcosa di scontato e atteso dopo il 7 ottobre. Che lo stesso mandato di arresto riguardi anche il premier israeliano Netanyahu e il suo ministro della Difesa, quindi il governo di Israele, diventa invece qualcosa che irrita gran parte dell’Occidente. Eppure, nel dicembre scorso, il procuratore internazionale Kharim Khan, di ritorno dal valico di frontiera di Rafah, senza riuscire ad entrare a Gaza, dichiarò: “Nessuno si senta impunito”. Un messaggio chiaro, che evidentemente in molti non hanno voluto o saputo recepire. Oggi Benjamin Netanyahu diventa il primo capo di governo di una “democrazia” ad essere indagato per crimini contro l’umanità. I numeri, forniti il 6 maggio scorso dall’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite, sono spaventosi e si consegnano alla storia: 35mila morti, di cui almeno 10mila donne e oltre 14mila bambini. Gaza è distrutta, ridotta in cenere, e quello che resta di quella terra non finirà mai di contare le vite cancellate.

Per molti osservatori tutto è cominciato il 7 ottobre con l’orribile attacco di Hamas, ma quel giorno è stato solo l’inizio della fine per Gaza e la sua gente. Il prezzo che Gaza e la Palestina stanno pagando nasce da lontano e ora il governo di Israele e Hamas hanno firmato davanti alla storia la fine delle speranze di un intero popolo. Quella fine era scritta da tempo nella mente di Benjamin Netanyahu e del suo governo, nato con le elezioni del 2022, e sostenuto da una coalizione della destra estrema israeliana comprendente il Likud, Shas, Partito Sionista Religioso, Giudaismo Unito nella Torah, Otzma Yehudit e Noam. Al centro del potere, Netanyahu ha piazzato i più spietati ideologi dell’estremismo sionista: il primo è Bezalel Smotrich, leader del Sionismo religioso, nominato ministro delle finanze e ministro delegato della difesa, l’uomo che si autodefinisce “di estrema destra, omofobo, razzista e fascista, ma la mia parola non è mai in questione”, e che invitava a “radere al suolo” la cittadina di Hawara dopo la morte di due coloni israeliani.

Il secondo è Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, “suprematista ebraico” e sostenitore convinto dell’uso dei metodi più brutali contro i palestinesi. Accusato di incitamento all’odio contro gli arabi, Ben Gvir chiede da sempre l’espulsione dei cittadini arabi di Israele. Due fanatici nel cuore del governo. Alle storiche e innegabili colpe di Netanyahu e del suo governo, e di quanti lo hanno preceduto, nella tragedia palestinese si iscrive anche Hamas. Hamas si è preso il potere nella striscia di Gaza con la forza, il terrore e anche con l’aiuto di Netanyahu: Yuval Diskin (ex capo del servizio di sicurezza generale) e Ehud Barak (ex primo ministro) hanno pubblicamente accusato Netanyahu di aver contribuito alla crescita di Hamas per indebolire, dividere e delegittimare l’Autorità nazionale palestinese. Sono loro a confermare come Netanyahu abbia permesso il rafforzamento e il finanziamento di Hamas. Lo stesso ministro delle Finanze, Belazel Smotrich, nel 2015 affermava che: “Hamas è un vantaggio e Abu Mazen, leader dell’Autorità nazionale palestinese, è un peso”.
Questa strategia era già attiva durante il primo mandato di Netanyahu nel 1996. 

Hamas non è un amico del popolo palestinese, e il massacro del 7 ottobre ne è la dimostrazione. I suoi leader erano consapevoli che quella ferocia, le violenze, gli stupri e la cattura degli ostaggi avrebbero portato a queste conseguenze, ma hanno scommesso sul fatto che senza un accordo con Hamas nessuna a pace è possibile. Infine, è del tutto evidente e grave l’obiettivo di trascinare la causa e la lotta del popolo palestinese nel perimetro del terrore fanatico e fondamentalista: davvero qualcuno crede che l’Iran degli ayatollah e il Qatar degli Emiri possano essere sinceri amici dei Gazawi? Sostenere che Gaza sia tutta con Hamas è, infine, una menzogna vigliacca: si dimentica come negli anni i suoi leader abbiano represso con la violenza e con il terrore ogni dissenso dentro la Striscia. Luisa Morgantini, già vicepresidente del Parlamento europeo e oggi presidente di Assopace Palestina, una vita dedicata ai diritti negati del popolo palestinese, ha sempre sostenuto che “se la gente fosse libera, Hamas perderebbe il suo potere, che sta nell’occupazione militare israeliana”.

Davanti alla decisone della CPI, le reazioni di Israele e Hamas diventano allora inaccettabili. Israele parla di “ipocrisia e di vergogna internazionale”, per il ministro Benny Gantz è addirittura un “crimine storico indelebile”. “Lo Stato di Israele – afferma Gantz – ha intrapreso una guerra giusta in seguito al massacro commesso da un’organizzazione terroristica contro i suoi cittadini. Israele combatte con i più alti standard morali della storia, rispettando rigorosamente il diritto internazionale e vanta un sistema giudiziario forte e indipendente”. Benjamin Netanyahu afferma che “questo è esattamente l’aspetto del nuovo antisemitismo, che si è spostato dai campus in Occidente al tribunale dell’Aia”. Itamar Ben-Gvir ribadisce che la decisione “dimostra che, mandare rappresentanti israeliani in tribunale, è stato un grave errore fin dall’inizio”. Hamas dal canto suo rifiuta la decisione della Cpi “che mette sullo stesso piano la vittima con il carnefice, e questo incoraggerà la continuazione della guerra di sterminio”.

La Comunità internazionale, per mesi, ha costruito sterili dibattiti intorno alla parola “genocidio”, negandolo. Il silenzio che per anni ha regnato di fronte alle violazioni del diritto compiute dallo Stato di Israele e ad ogni sua azione militare (impossibile dimenticare l’operazione “Piombo Fuso”), oggi viene rotto per esprimere solidarietà a Benjamin Netanyahu. Il presidente Usa, Joe Biden, definisce “scandalosa” la richiesta del procuratore della Corte Penale Internazionale di mandati di arresto contro i leader israeliani. Il Dipartimento di Stato statunitense va ancora oltre, sostenendo che “la Corte penale internazionale non ha la giurisdizione per indagare, poiché Israele non è firmatario dello Statuto di Roma che ha fondato la Corte e quindi non ne riconosce l’autorità”. Joe Biden non è solo in questo collegio di difesa: per la Germania la decisione “dà il senso fuorviante di un’equiparazione”, mentre il governo italiano si allinea senza esitazione con gli USA.

Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, in un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” si affretta a precisare che “è del tutto inaccettabile che si mettano sullo stesso piano Hamas e Israele, i capi del gruppo terroristico che ha avviato la guerra di Gaza, massacrando cittadini innocenti, e i capi del governo eletto dal popolo di Israele. È assurdo che il procuratore abbia solo concepito questo parallelismo. In nessun modo si può solo immaginare una equiparazione del genere. Attenzione a non legittimare posizioni anti-israeliane che possono alimentare fenomeni di antisemitismo”. Anche in questo caso torna la parola “antisemitismo”, usata esattamente come fatto da Netanyahu.

C’è sempre un Occidente ipocrita, arroccato in difesa di se stesso e incapace di assumersi le proprie responsabilità anche di fronte a 35mila morti e alla decisione di un organismo come la Corte penale internazionale. Resta quell’idea che porta a considerare i morti di Gaza non come essere umani ma come vittime collaterali. Delegittimare una Corte che apre uno squarcio sulle atrocità che cancellano un popolo è un atto grave, ed è significativo che a farlo siano gli stessi che l’hanno applaudita quando i mandati di arresto erano rivolti a Vladimir Putin e ai suoi generali per la guerra in Ucraina. Di fronte a queste ipocrisie Gaza non c’è più. Israele, Hamas e l’Occidente potranno forse cavarsela davanti ad una Corte penale internazionale, ma per loro sarà molto più difficile riuscire a cavarsela anche di fronte alla storia e ai bambini di Gaza, di Rafah o di Jenin: quei bambini un giorno saranno adulti, e non potranno né riusciranno a dimenticare.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org