L’avvento del nuovo governo e, soprattutto, del premier Draghi, al quale gran parte degli italiani, secondo i sondaggi, hanno dichiarato una immediata e incondizionata fiducia, sembra avere un po’ messo in secondo piano polemiche e vicende del recente passato. Tutto oggi sembra scorrere senza particolari scossoni, a parte lo sconcerto per l’orrore dei sottosegretari scelti. Si parla del piano vaccinale (peraltro sostanzialmente quello già predisposto dal precedente governo e che sembrava funzionare abbastanza), non si parla più di ristori (ma non erano un’emergenza?), mentre si continua con le modalità di gestione delle zone a colori, come in precedenza. Anche sul Next Generation EU, le parole del premier sembrano andare nella direzione di confermare il lavoro svolto (e dunque la bozza già predisposta) dal precedente governo. E il Mes? Nulla, non se ne parla più. E la sanità? Niente. Insomma, il grande terremoto politico, avviato da qualcuno spingendo il pulsantino sull’ego di Matteo Renzi, ha portato solo un risultato: ha fatto fuori Giuseppe Conte, ha peggiorato la maggioranza, facendo entrare la Lega e Forza Italia, e ha sostituito alcuni ministri, tra i più capaci, con altri che sono tutti da valutare oppure già tristemente noti.

Alla fine, dunque, serviva davvero questa crisi? Era realmente necessario trascinare il Paese in un rallentamento pericoloso mentre il mondo era nuovamente in allarme per le varianti del virus? La risposta è semplice ed è negativa. Non serviva al Paese, ma solo ad alcuni attori politici ed economici per i quali le priorità sono private e non collettive. Alla fine, era solo una questione di poltrone e di caselline da riempire con gli interlocutori più funzionali a determinati interessi economici. Il segnale più evidente dell’inutilità della crisi, ce lo fornisce questa atmosfera ovattata e stracolma di ipocrisia. Ad alimentare un po’ di polemica ci pensa il solito Salvini, prima annunciando la pressione della Lega sul Viminale, poi attaccando Speranza, salvo poi rettificare e assicurare collaborazione, quindi chiedendo la cacciata del commissario Arcuri, infine strumentalizzando un fatto di cronaca per chiedere che le forze dell’ordine vengano dotate di Taser.

Ma sono polemiche minuscole, senza troppi strascichi, senza che vi siano rimpalli degni di nota. Salvini gioca la sua prevedibile partita doppia, con meno efficacia del solito, anche a causa delle troppe trasformazioni, come nel caso dell’inedito europeismo o dell’interesse per la lotta alla pandemia, lui che dall’Europa voleva uscire e che della pandemia se ne infischiava apertamente, ammiccando ai no mask e andando in giro a far foto senza mascherine. Sono giravolte troppo evidenti, compreso il tono di dialogo e conciliazione con forze un tempo avversarie, sono cambi di atteggiamento che stonano troppo con il personaggio costruito quotidianamente per anni. Per questo ha bisogno ogni tanto di uscire dalla fila. Ma i suoi sono solo dei tentativi, anche piuttosto banali, di provare a sguazzare ancora un po’ in quella dimensione di “opposizione” che tanto proficua e utile è per il consenso e che, una volta entrati nel governo, si rischia di lasciare totalmente in mano ad altri.

Ossia a Giorgia Meloni, che però sembra un pugile che picchia a vuoto, non più tanto capace di piazzare il gancio e, a quanto pare, nemmeno di incassare bene. Dall’altra parte c’è invece un PD irrequieto al suo interno e un Nicola Zingaretti che sbaglia tutto quello che è possibile sbagliare. Prima, con il suo atteggiamento timoroso davanti ai primi vagiti di ribellione di Renzi contro il governo, lasciandosi infilare nel tranello. Poi, con la scelta di entrare nel nuovo esecutivo, invece di limitarsi a un appoggio esterno responsabile. Una scelta che costerà cara e che ha frantumato quel poco di credibilità che, con la pandemia, in parte era riuscito a ritrovare. Ci sono temi sui quali il PD dovrà cedere al volere della maggioranza, perché altrimenti dovrebbe correre il rischio di far cadere il governo e misurarsi con la disapprovazione degli elettori più moderati, che ormai da tempo sono il riferimento primario dei democratici. Ci sono temi rispetto ai quali questo partito doroteo non avrà più il diritto di parola, né di indicare un altro come il cattivo, il reietto, il bruto. Non lo poteva fare nemmeno prima, in realtà, viste alcune decisioni e leggi crudeli che ha prodotto, ma governare con le forze razziste, industrialiste e sovraniste ha un peso maggiore.

Il segretario Zingaretti mostra una pochezza preoccupante, al punto da apparire sempre più come un elemento etereo, una voce spenta che disperatamente si appende a dichiarazioni, tweet e post goffi per cercare di dire “io esisto e lotto insieme a voi”. Dichiarazioni spesso sconcertanti che certificano una ipocrisia quasi farsesca. Qualche esempio? Tralasciamo volutamente l’endorsement penoso alla D’Urso, che si commenta da solo e passiamo subito ad altro. Quando viene formato il governo e presentato il gruppo dei ministri, e il segretario PD afferma che, nel completare la squadra (sottosegretari, viceministri, ecc.), bisognerà aumentare la presenza femminile. Peccato che il PD sia quello che ha espresso solo ministri uomini e quindi è davvero difficile comprendere a chi rivolge questo invito Zingaretti. O ancora: il nuovo esecutivo conferma la chiusura degli impianti di sci e la comunica ai gestori all’ultimo momento, e Zingaretti, per rintracciare la protesta degli stessi gestori, tira fuori un tweet nel quale chiede che “il Governo si adoperi subito per indennizzi e ristori a chi è stato colpito”, affermando che questa “è la priorità assoluta”. Ma a quale governo chiede un intervento, se il PD ne è parte?

Se fosse stato in appoggio esterno avrebbe potuto alzare la voce, ma visto il ruolo attuale sarebbe stato sufficiente alzare il telefono evitando l’esposizione social che tanto ricorda alcuni suoi ex avversari. E poi davvero questa è la priorità assoluta? O è solo uno dei problemi da affrontare, insieme a quelli di altre categorie altrettanto danneggiate, come lavoratori autonomi, operatori culturali, ecc.? Insomma è surreale questo modo di fare politica, nella quale si fa quadrato attorno a Draghi, si dialoga e si governa con il nemico, ma ogni tanto si cerca di posizionarsi dentro una bolla di opposizione da esibire sui social contro sé stessi e il proprio partito.

In questo mondo di fantasia, chi rimane sempre uguale, invece, è Matteo Renzi. L’uomo del partito del 2% e con il gradimento più basso della sua breve e ingloriosa storia politica, ha fatto il suo dovere per conto di altri. Continua a twittare, a commentare, a dipingere un mondo tutto suo, dove la realtà viene presentata con gli occhi annebbiati del proprio ego. Scrive e parla tanto, Renzi, parla sempre. Solo su una cosa tace, non risponde: i suoi rapporti con l’Arabia Saudita. Nelle ore successive alle dimissioni di Conte, nacquero le polemiche per l’intervento di Renzi in Arabia Saudita, al Future Investment Initiative (Fii). Una iniziativa del Future Investment Initiative Institute, creato dal re Salman bin Abd al-Aziz Al Saud e nel cui comitato consultivo figura il senatore toscano. Un ruolo che sarebbe pagato circa 80mila dollari all’anno. Insomma, Renzi, un senatore della Repubblica, collabora con un Paese che viola i diritti umani, nega i diritti delle donne, schiavizza i lavoratori e uccide i giornalisti scomodi come Jamal Khashoggi.

Un Paese che lo stesso Renzi ha definito un luogo meraviglioso, con un costo del lavoro invidiabile (lo dica ai lavoratori senza diritti), un Paese che, secondo l’ex sindaco di Firenze, potrebbe addirittura diventare la “culla di un neo-rinascimento”. Ecco, in questo clima di “unità nazionale”, questa vicenda gravissima è fortemente simbolica. Nessuna forza di maggioranza oggi spende una parola o chiede chiarimenti a Renzi. Lo sta facendo solo il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, dall’opposizione. O da quel che ne resta, ossia piccoli brandelli di normalità politica davanti a un insostenibile festival dell’ipocrisia.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org