Quando esplode una bomba o vengono incendiate un’autovettura o la saracinesca di un negozio, arriva la risposta decisa delle associazioni antimafia e quella, più o meno timida, dei cittadini. Qualche volta, si registra anche la presa di posizione da parte delle istituzioni. Per il resto, tranne in casi eclatanti avvenuti in territori particolari, si volta pagina in fretta, lasciando che tutto venga spazzato via insieme ai detriti, alla cenere, ai pezzi di vetro o di lamiera e alle parole di circostanza. Si chiama assuefazione, un virus per il quale il vaccino è stato accantonato da tempo, da quando si è smesso di parlare di mafia quotidianamente e soprattutto da quando se ne parla più per un fatto retorico che per proporre soluzioni e strategie concrete. A Foggia, nel territorio garganico, le bombe sono diventate ben nove, esplose in successione allarmante in nemmeno tre settimane dall’inizio del 2022.

Ci è voluta questa sequenza per spingere lo Stato, o meglio le autorità nazionali, a interessarsi apertamente di quella quarta mafia della quale si parla ancora meno delle altre. Eppure, già da alcuni anni, associazioni, giornalisti, la stessa Procura Nazionale Antimafia denunciano una situazione preoccupante, una cappa opprimente fatta di criminalità, estorsioni, intimidazioni, arresti e omicidi efferati che hanno coinvolto anche cittadini innocenti. Persone uccise perché avevano visto, perché si sono trovate al posto sbagliato nel momento sbagliato. Sono stati uccisi anche rappresentanti delle forze dell’ordine e anche allora lo Stato si fece vivo, timidamente, per poi tornare a non posare più lo sguardo sulla provincia foggiana. Provincia che ha prodotto storie drammatiche, ha visto scorrere il sangue di martiri, nomi e cognomi consegnati alla memoria, come Luigi e Aurelio Luciani o il maresciallo Vincenzo Di Gennaro. E ha altri morti innocenti senza nome, come i tanti braccianti strozzati dal caporalato e morti nei campi o in incidenti stradali, dentro mezzi in cui erano stati stipati come bestie dai caporali che li conducevano al lavoro.

Le inchieste, le attività delle forze di polizia e della magistratura non bastano, non sono sufficienti i mezzi repressivi per arginare quella che è una mafia emergente, spietata, dagli interessi ramificati. Sono anni che viene raccontata una realtà feroce (lo abbiamo fatto tante volte anche su queste pagine), anni che, a livello nazionale, si presta solo un’occhiata distratta a quello che accade. Adesso, dopo la recrudescenza del fenomeno del racket, dopo nove bombe, qualcosa si muove. Anche il governo, attraverso la ministra dell’Interno, Lamorgese, si espone, si fa vedere, si presenta nel capoluogo e assicura che lo Stato c’è e che bisogna avere il coraggio di denunciare. C’è lo Stato, e non da oggi, almeno sul piano del contrasto militare: lo dicono i dati dell’ottimo lavoro svolto in questi anni dagli inquirenti, con arresti, provvedimenti e sequestri di beni. C’è e ci sarà ancora di più, assicura la ministra, annunciando il potenziamento dell’organico delle forze di polizia presenti sul territorio e la realizzazione di interventi strutturali sulla sicurezza, e al contempo invitando i cittadini a non aver paura di parlare.

Un passo avanti certo, ma sempre indietro di tanti anni, segno che della lotta alla mafia si sono perse le tracce principali. Si è smarrito il ragionamento, si è perso di vista l’insegnamento di chi nel passato ha combattuto con intelligenza e arguzia, sfidando la mafia sul campo militare ed economico, certo, ma ribadendo più volte che è quello sociale il vero terreno di sfida, il più importante. Si continua a credere che delle telecamere, qualche pattuglia e un commissariato in più possano servire a cambiare le cose. Non è così. Lo dice la storia di questo Paese, lo dice la storia della lotta alla mafia. Che non può limitarsi all’aspetto repressivo e di indagine (sicuramente importante), ma deve necessariamente andare oltre, almeno nelle idee e nelle strategie delle istituzioni nazionali.

Siamo in un’epoca che ha accentuato le disuguaglianze e le emarginazioni, l’epoca in cui le mafie hanno raffinato i loro metodi, continuando a controllare porzioni di territorio, sfruttando la miseria e il degrado, ma al contempo agendo direttamente nel mondo di sopra, nell’alta finanza, nella politica, laddove girano i soldi. Come dice il giudice Sebastiano Ardita, “quello che una volta era considerato un concorso esterno, con i professionisti e i colletti bianchi, oggi è diventato il vero business”. Ed è di questa parte di mondo affarista che si parla sempre meno. Ci si accorge delle mafie solo quando emerge la loro versione militare, quando esplodono le bombe, quando si rende visibile la loro versione più banale, quella delle estorsioni e delle piazze di spaccio, quella del controllo di quartieri disagiati. Quella contro cui non si mettono in moto i meccanismi realmente funzionanti, che non sono repressivi, ma sociali ed economici.

Meccanismi che producano investimenti su scuola, sport, edilizia, riqualificazione urbana, “de-ghettizazione” delle periferie, occupazione, tutela del lavoro e dei diritti del lavoro. Accanto a questi, servono anche strategie qualificate di lotta alle mafie finanziarie, alle ingerenze sulla politica, sull’economia, sugli appalti, sull’industria e sulla filiera agricola. Perché spesso la cattiva gestione delle risorse necessarie a far progredire un territorio è proprio il frutto dei rapporti tra mafie e politica. Su questi temi, nessuna parola. Così come si tace sulla grande opportunità rappresentata dal piano di ricovero europeo che porterà risorse enormi all’Italia e che non sembra mettere il contrasto “sociale ed economico” alle mafie al centro dei progetti. Perché di mafie si parla poco in politica, lo si fa solo quando esplodono le bombe. In quel caso, come nella vicenda foggiana, si promettono più strumenti di controllo e più poliziotti. E poi si spera nella denuncia della gente, si insiste sulla necessità di superare la paura.

Anche qui siamo indietro di anni, perché è inutile e sciocco puntare l’attenzione sulla denuncia di cittadini inermi che hanno paura non di raccontare, di parlare, ma dell’inadeguatezza dei sistemi di protezione. Hanno paura del dopo, di quello che lo Stato smetterà di fare quando i riflettori saranno spenti, quando la mafia tornerà a non aver più bisogno di far rumore e quindi avrà su di sé meno attenzione. Giusto spingere i cittadini alla denuncia, ma solo dopo aver assicurato e dimostrato la capacità di proteggerli a 360 gradi. Non si può pretendere l’eroismo delle persone, se non si predispongono tutte le misure per permettere a chi denuncia e ai loro familiari di continuare a vivere e lavorare senza rischiare la propria vita o di perdere tutto. Siamo ancora indietro, se pensiamo di combattere le mafie così. Soprattutto se poi, per il resto dell’anno, facciamo finta che non esistano, preferendo costruire e inventare nemici diversi e impiegando tutto il dibattito politico in una assurda guerra contro dei disperati.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org